È diventato quasi un gioco di società, un passatempo per grandi e piccoli ma anche segnale di conoscenza ed empatia col calcio di tutti i tempi. Tutti si cimentano e poi si apre il dibattito. Le opzioni sono diverse e sempre molto stimolanti, quando poi si va a leggere i criteri che hanno orientato certe scelte. Per farla breve, stiamo parlando delle “formazioni ideali” o dei “top 11” che affollano social e profili e che raccontano di quanto, di fatto, tutti noi, pur con competenze e vissuti differenti, ci sentiamo un poco mister dentro. Ci abbiamo provato anche noi e siamo e allora siamo andati sul sicuro o, almeno, riteniamo così.
Esiste una squadra che, col passare degli anni e degli anniversari, ha lasciato una traccia indelebile nel cuore di tutti: la Nazionale campione del mondo del 1982. In molti, anche recentemente, ne hanno scritto per ricordare quegli anni, quelle partite, quegli uomini. Anni importanti, da analisi sociologiche. L’Italia che si riscattava da terrorismo, stragi e terremoti, un’Italia che si infilava negli anni 80 spregiudicata e ottimista, desiderosa di cambiare volto a comportamenti e abitudini, seguendo l’idea di quell’edonismo reaganiano tanto citato in quell’epoca.
La Nazionale di Bearzot – metaforicamente – squarciava un velo con il suo pragmatismo e la sua voglia di arrivare e vincere che dava un senso al tricolore, lo rendeva splendente e famoso, in un panorama calcistico internazionale in cui non sembrava esserci spazio. Arrivava a vincere quel campionato mettendo, uno dietro l’altro, tre team in apparenza imbattibili come Argentina, Brasile – un dream team vero, quello – e la Germania Ovest. Era una squadra che reggeva essenzialmente su tre blocchi: quello della Juventus (6 giocatori, tutti titolari) più Causio, passato da poco all’Udinese ma juventino di lungo corso, quello dell’Inter, campione d’Italia due anni prima e quello della Fiorentina, tenace antagonista dei torinesi, nella lotta per lo scudetto proprio nell’82. Poi un mix di tutto il resto del campionato, con il giovanissimo Baresi e il cagliaritano Selvaggi, voluto da Bearzot al posto del capocannoniere Pruzzo, per non fare ombra a Paolo Rossi, reduce dalla lunga squalifica per il calcioscommesse.
Le polemiche e le tensioni dei primi match di quel torneo sono entrati essi stessi nella storia di quella competizione. Le maldicenze e le insinuazioni, gli attacchi volgari superficiali e incompetenti a Bearzot e ai suoi, presi di mira persino dal fuoco amico di membri della Federazione contribuirono a creare un clima che rafforzò l’unione e la determinazione di quel gruppo. E fu storia.
Quella squadra giocava un calcio pragmatico ma estremamente redditizio. Bearzot che aveva girato in lungo e in largo come osservatore per le nazionali, negli anni precedenti al suo incarico, aveva una conoscenza capillare e dettagliata di come si giocasse in giro per il mondo. Non a caso, tra il 1978 e il 1982, la nostra Nazionale realizzava la striscia più positiva di piazzamenti al Mondiale dopo le affermazioni di Pozzo e dei suoi nel 1934 e nel 1938. Calcio pragmatico, si diceva, basato su tre blocchi eterogenei ma compatibili che però avevano nei singoli peculiarità tecniche e umane che facevano la differenza.
Alla finale dell’undici luglio di quel 1982, Bearzot si presentava privo di Antognoni. La squadra, fino ad allora, aveva schierato, salvo pochi inessenziali avvicendamenti un undici tipo. Zoff in porta, Scirea libero davanti a lui, Collovati e Gentile in marcatura rigidamente a uomo sulle punte avversarie. Davanti a loro, Tardelli e Oriali, frangiflutti a presidiare il centrocampo ma con libertà di inserimento sotto porta, per pochi minuti surrogati da Marini. Ai loro lati, a destra Conti, imprescindibile dell’avvio della manovra, a sinistra Cabrini, terzino a tutta fascia. E poi Antognoni e Graziani a lavorare alla spalle di Rossi, di fatto unica punta.
Ognuno di questi undici aveva, come detto una peculiarità per quello che rappresentava, di suo e nel gruppo. Zoff e Scirea, binomio che in panchina avrebbe certo fatto grandi cose, se la tragedia dell’89 non avesse stroncato la vita del libero azzurro, erano la mente tattica di quella squadra. In totale simbiosi tra loro e con Bearzot, erano, di fatto, in grado di registrare e governare ogni movimento di quella formazione. Mai un gesto scomposto, concentrati all’esasperazione, presenti ed equilibrati sempre. Collovati, nella sua elegante efficacia, sapeva reggere il passo con i suoi due compagni. Anticipo, decisione, disinvoltura nel palleggio furono le sue armi migliori. Gentile, passato alla storia per le rudi marcature a Maradona e Zico, in realtà fece valere doti ben più importanti, sapendo svolgere il doppio ruolo di francobollatore e suggeritore, ispirando le ripartenze di molte azioni dei nostri.
A metà campo, una inusuale linea a 4, con Conti regista a tutto campo, con dribbling, aperture millimetriche e copertura del campo in ampiezza, Tardelli e Oriali, di fatto a zona a presidiare una porzione di campo nevralgica, con un gioco fatto di dedizione, tra fosforo e polmoni. E poi Cabrini, esplosivo nei sui 25 anni, sprint da 400metrista, sinistro tagliente ma anche grande sagacia nei ripiegamenti. E poi due “sottopunte” (scusate il neologismo contemporaneo) anomale: una mezzala come Antognoni, mai convenientemente valorizzato con tiro, dribbling, visione di gioco e Graziani, centravanti, storica spalla di Pulici, nel Toro e in nazionale, grande lavoratore in fase di interdizione e poi possesso. Da ultimo, il figliol prodigo, atteso e difeso tanto: Paolo Rossi, 6 gol con lo spirito e il Dna del vero centravanti.
La finale, dicevamo. Antognoni, menomato da una botta al collo del piede, rimediata nella semifinale con la Polonia, gettava la spugna. A suo posto, sorprendentemente, Bearzot schierava Bergomi che andava a occuparsi di Rummenigge, “liberando” Gentile sulle tracce di Littbarski, ben presto più cacciatore che preda. La partita è una storia e tutti la conosciamo. Bearzot non sbaglia una mossa: Collovati e Bergomi su Fischer e Rummenige, Cabrini che vigilava sulle incursioni di Kalzt, Tardelli e Oriali a occuparsi di Dremmler e Breitner, Conti che si faceva inseguire da Briegel. E la storia faceva il suo corso.
Il rigore di Briegel su Conti e l’errore di Cabrini, Graziani che si faceva male e lasciava il posto ad Altobelli. E il gol di Rossi, ancora lui, su cross di Gentile, propiziato da una punizione su Oriali, il sinistro di Tardelli, controbalzo dopo il palleggio elegante di Scirea in area tedesca e il 3-0 di Altobelli che riceveva da Conti, arrivata dopo 40 metri palla al piede e la buttava dentro per poi correre attonito per il campo, quasi a dire “Cosa ci faccio qui?!”
Poi entrava Causio, il Barone, ideale congiunzione col calcio di un’epoca, a caratterizzare con l’ultimo tocco quella finale indimenticabile. Da Zoff a Causio, passando da Gentile, Bergomi, Scirea, Collovati, Cabrini, Conti, Tardelli, Oriali, Marini, Antognoni, Altobelli, Graziani e Rossi. Si, sono proprio quindici.
Gigi Poggio