Riccioli e baffi, carattere esuberante. A metà degli anni Settanta lo chiamavano Stricker perché assomigliava a Erwin Stricker, lo sciatore folle della Valanga Azzurra.
Poi arrivò Nils Liedholm. “Ragassi, Tosetto è il Keegan della Brianza”, stabilì il santone svedese allenatore del Milan. Kevin King Keegan, l’inglese ala destra del Liverpool plurititolato e dell’Amburgo. Un fenomeno di attaccante: rapido, talentuoso, cattivo.
Ugo Tosetto, più modestamente, veniva da Cittadella, provincia di Padova, dov’era cresciuto in una sana famiglia agreste, e giocava in Brianza nel Monza. In più non era tornante, ma mezzapunta, equivoco di fondo che ne guastò la carriera. Liedholm, del resto, si divertiva a spararle grosse, definì Mandressi il nuovo Rensenbrink e accostò Gaudino a Nordahl. Ne avesse imbroccata una, ma Nils esagerava di proposito per tenere su il deperito Milan dell’epoca.
Tosetto diventò rossonero nell’estate del 1977. Il Milan lo pescò in B, nel Monza, che in avanti schierava un “certo” Ariedo Braida e che tra i dirigenti annoverava un “tale” Adriano Galliani, rampante industrialotto brianzolo, ramo citofoni e antenne. Evidenti segni di un destino incombente e affare da un miliardo e 600 milioni di lire. Il prezzo includeva un centrocampista maratoneta, coi capelli biondo platino, Ruben Buriani.
Migliaia di milanisti si illusero. “Con Buriani e con Tosetto vinceremo lo scudetto”, scandivano i più ingenui. Del nuovo fenomenale duo si occupò un giovane cronista sportivo del Corriere d’Informazione, Ferruccio de Bortoli, futuro direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore. “Ugo Tosetto e Ruben Buriani – prevedeva de Bortoli, forse ammaliato da Liedholm, sull’edizione del 18 luglio ’77 – scriveranno la sceneggiatura del prossimo campionato rossonero”.
Tosetto girò il suo pezzo di film, peccato che fosse un horror. Ventidue presenze in serie A nel Milan senza segnare lo straccio di un gol. L’unica misera rete Tosetto la firmò a fine settembre, nel ritorno dei sedicesimi di Coppa delle Coppe, a San Siro contro il Real Betis, raro momento di gioia per di più avvelenato dall’amarezza per l’eliminazione.
Col senno di poi il Tosetto di oggi la spiega così: “Al Monza giocavo come pareva a me, dietro gli attaccanti, mi inserivo, suggerivo, tiravo. Al Milan quel ruolo lo ricopriva Rivera e mi dirottarono in fascia… Ma quale Keegan, io ero un dieci”.
Via dal Milan, nel 1978-79 altro anno di serie A, all’Avellino. Venti partite e di nuovo zero gol. Inevitabile lo scivolamento, serie B e C. Il ritorno a Monza, poi Vicenza, Modena, Benevento e Rimini. Giù giù fino ai dilettanti. Borgo Ticino, Oleggio e Mirago le tappe finali di una carriera chiusa a 43 anni tra gli amatori, per via di un ginocchio frantumato da un portiere spericolato.
“Ora prendo la pensione – racconta – e vivo a Solbiate Arno, in provincia di Varese, sulla strada per Milanello. Ho una casa con un po’ di terra e mi diverto a fare il contadino. Allevo anatre e galline, curo un frutteto: kiwi, ciliegie, pere e mele. Poi faccio legna nei boschi del suocero e mia moglie gestisce una cartoleria-bigiotteria a Tradate. Abbiamo tre figli e siamo già nonni di Niccolò. Allenavo i ragazzi della Solbiatese, ma mi sono rotto le scatole dei genitori invadenti, che tormentano gli allenatori perché non fanno giocare i loro fanciulli scarsi coi piedi. Viva la campagna, che rende liberi”.
Sebastiano Vernazza