A parte i binari della Hoehl, vecchio simbolo di un confine labile tra il mondo operaio e il resto del mondo, le frontiere erano un concetto astratto già alla fine dell’Ottocento, una linea virtuale geograficamente tortuosa, sostanzialmente inconsistente. Quando gli emigranti italiani cominciarono ad arrivare con i bauli carichi di speranze, si sistemavano dove potevano, dove c’era un lavoro e un posto per dormire. Non pensavano ai confini perché tra il Belgio, la Germania, la Francia e il Lussemburgo – l’area del vecchio bacino minerario centroeuropeo – basta attraversare una strada per essere di qua o di là. «E poi le gallerie collegano i Paesi e nel sottosuolo non ci sono frontiere e i confini non hanno senso».
Le parole semplici di Maria Luisa Caldognetto inquadrano la normale quotidianità di chi «al mattino andava al lavoro in Francia, distante cinquecento metri, e la sera tornava in Lussemburgo», cioè una naturale unione di Stati determinata da domanda e offerta di lavoro. Studiosa dell’emigrazione italiana, Maria Luisa Caldognetto, docente di italiano all’università tedesca di Trier, la città di Karl Marx, è una signora elegante, abituata ad adoperare un eloquio efficace e descrittivo.
Trentina di origine, vissuta a Roma e giunta in Lussemburgo dopo varie tappe di studio e di lavoro in diversi paesi europei per occuparsi dei corsi di lingua e cultura italiana per gli emigrati, è impegnata da anni nelle attività del Centre de Documentation sur les Migrations con sede a Dudelange.
Quando racconta la vita dei minatori e dei metalmeccanici, ricostruisce la trama degli anni del ferro, in cui la geografia aveva un senso relativo. Ogni singola nazione era in realtà un pezzo della più grande e compatta Nazione delle Miniere unificata dal lavoro, dagli uomini e dai loro spostamenti disegnati dal caso e caratterizzati da un «pendolarismo rotatorio» che dirottava gli emigranti qui o là «a seconda delle opportunità e dei contratti più convenienti».
Così si poteva indifferentemente arrivare a Dudelange o a Esch-sur-Alzette, nel fumoso meridione industrial-minerario del piccolo Granducato bisognoso di braccia per estrarre ferro e produrre acciaio, o indirizzarsi un po’ più a nordovest, nelle miniere di carbone di Marcinelle e Blegny, in Belgio; oppure nella regione della Ruhr, a est, in Germania; oppure dirigersi in Francia, leggermente più a sud della terra promessa di Adelmo Venturi, dove nel 1920 trasferì le sue speranze un muratore piemontese. Si chiamava Francesco Platìni, con l’accento sulla prima “i”.
Per cercare fortuna, Francesco partì da Agrate Conturbia, un paesino della provincia novarese, e si fermò in un posto che poteva garantirgli un futuro. Prese casa e mise radici tra le miniere della Lorena, in un paesino con le case grigie come quelle di Esch: Joeuf. E qui nacque il figlio Aldo; e Aldo divenne professore di matematica e calciatore dilettante. Poi conobbe e sposò Anna Piccinelli, una ragazza bellunese che gli diede due figli: Michel François e Martina.
Fu per il caso, o per il destino o chissà che altro, se Michel e Martina vennero alla luce qui, dove nonno Francesco aveva aperto le valigie piene di speranze, guadagnato qualche soldo e comprato il bar “Le Café des Sports”.
Nel paesino di minatori distante appena quaranta chilometri da Esch-sur Alzette, cioè quaranta chilometri dalla Hoehl e dallo Stade de la Frontière, Michel cominciò a familiarizzare con il calcio, si divertiva a colpire il palo del telegrafo o a scuotere la saracinesca di un garage vicino a casa, nella Rue Saint-Exupery, immaginando fosse una porta.
Un campione francese di origini italiane, ma poteva essere tedesco, belga o lussemburghese se la valigia di nonno Francesco si fosse aperta un po’ più in là o un po’ più in qua, oltre la linea di un altro confine invisibile nella Nazione delle Miniere, le cui frontiere disegnate dal lavoro lasciavano liberi gli emigranti – prima ancora dell’Unione europea, prima del trattato di Schengen e della libera circolazione di merci e uomini – di muoversi tranquillamente da uno Stato all’altro.
Era così, semplicemente così, sorride la professoressa Caldognetto. I confini non avevano senso neppure durante la seconda guerra mondiale, «quando ci fu l’occupazione nazista e le fughe avvenivano tra i cunicoli delle miniere che collegano i vari paesi», e quando la macchina per scrivere utilizzata dal partigiano Luigi Peruzzi per la propaganda clandestina «fu trasportata in Lorena con una carriola, nascosta sotto un mucchio di letame».
Aveva undici anni quando entrò nel Jovicienne di Joeuf, squadra allenata dal papà, mostrando le sue qualità di calciatore. Michel giocò i campionati giovanili anche sul terreno della Jeunesse, la formazione degli operai.
Con uno spirito emulativo, gli emigrati, soprattutto gli italiani, la chiamavano «la Juventus del Lussemburgo», perché era bianconera come la Juventus di Torino, la squadra dalla quale, dopo Nancy e Saint-Étienne, Michel, il genio del pallone ormai divenuto Platinì – perché i francesi ne avevano nazionalizzato il cognome e fatto scivolare l’accento sulla seconda “i” – fu ingaggiato nel 1982. E incantò l’Italia e il mondo, conquistò gloria, popolarità e per tre volte di fila il Pallone d’Oro, premio al migliore calciatore europeo.
da Il pallone e la miniera, edizioni Kurumuny