“La Lazio è un pianeta per miscredenti”. “Resta che per la prima e ultima volta nella storia di questo sport assai cambiato, una squadra si divideva ogni giorno, duplicava i suoi riti, li contrapponeva, per poi riunisse la domenica sotto un colore solo, misteriosamente unita, una, e in modo magico”.
“Credo de poté fissà dopo quel derby il momento in cui le pistole s’allargarono e iniziarono a divorasse il resto”.
Intanto che “illuminavano nei bidoni il fuoco le mignotte”, “Roma si sta svegliando con una certa strafottenza”. “La cordalenta del lungotevere indifferente a tutto” saluta un nuovo giorno dell’autunno 1971. A questo punto, il lettore ha già capito che Le canaglie (Sellerio, pagg. 354, euro 16) di Angelo Carotenuto è anche un libro di scrittura, che rimanda all’attore e poeta dialettale Pippo Tamburri, il Petrolini dell’Ottocento, alla ricercatezza barocca di Gadda, alla prosa scabra e rugosa di Pasolini, al ritmo sceneggiante di Sciascia. E se ne compiace, il lettore, perché di libri scritti ha gran bisogno, in mezzo a tanti libri semplicemente pubblicati. Nel romanzo di Carotenuto – come ci ricorda Daniele Abbiati – c’è una squadra di balordi domata da un vero maestro di vita nei terribili anni Settanta
In copertina, ci sono tre uomini. Un pischello s’affaccia dalla porta di uno spogliatoio e guarda un omone con in mano un fucile. L’omone è Giorgio, detto “er Gobbo”, e accanto ai suoi piedoni nelle scarpe da calcio non ancora allacciate ci sono altre scarpe da calcio, quelle dei suoi compagni-camerati, tutte in fila per due. Su una panchetta, il barattolo con il grasso e la spazzola, per lucidarle.
E il terzo uomo? Non si vede, ma c’è. È quello che ha scattato la foto. Si chiama Marcello Geppetti e dopo le stelle della Dolce vita, all’inizio dei Settanta ritrae il buio della cronaca nera e i colori del calcio, pieno di zone grigie. Nel romanzo di Carotenuto, Geppetti mantiene il nome ma cambia il cognome in Traseticcio, che in lingua napoletana sta per “persona che s’intromette nelle faccende altrui”, proprio come fanno i paparazzi. A pagina 104, lui, voce narrante, afferma: “Una fotografia è il resoconto di un’attesa. Bisogna vestisse de silenzio per andarle incontro. Una fotografia ci sceglie. Gli occhi li tenemo tutti, ma l’immagine di un istante se concede a una persona sola”. Nella “Nota” finale, l’autore dice che “parla spesso citando alla lettera e rielaborando pensieri e riflessioni di Cartier-Bresson, Sebastião Salgado e altri grandi fotografi”.
Ma chi sono Le canaglie? Canaglia suona bene per Chinaglia, proprio quel Giorgio là, e per i suoi amici e nemici, dentro e fuori quello spogliatoio là. Il sostantivo compare due volte in tutto il libro, sul finire. Maggio 1976, Tommaso Maestrelli, “er Tiepido”, allenatore e maestro di vita, “il nostro strumento di misura morale”, dirà il portiere Felice Pulici quando, meno di sette mesi dopo, il mister morirà, si rivolge a Luis Vinício che l’ha sostituito sulla panchina della sua Lazio: “Se con i miei ragazzi entri in armonia, vedrai, ti prenderanno l’anima. Sono canaglie, ma simpatici”. Inizio gennaio 1977, Luciano Re Cecconi, “er Biondo”, parla a Marcello, fingendo di dubitare della sua fede calcistica: “Se alla prossima partita ti vedo in campo, sei laziale. Se non ti vedo, sei una canaglia”.
Lui, il motore perpetuo della squadra, in campo non ci sarà, per colpa di una burla sfociata in tragedia. La fine di Luciano, ucciso pochi giorni dopo dalla “legittima difesa putativa” di un gioielliere, come sentenzia il tribunale, è anche l’epilogo del romanzo, l’ultima vittima di tanta violenza talmente reale da generare quella presunta.
Il calcio, Roma, l’Italia, gli anni di piombo, il terrorismo: Carotenuto ci offre un grumo rappreso di pochi anni e tanti fatti, un paesaggio che abbraccia il verde spelacchiato di Tor di Quinto, laboratorio di rivalità e contrasti dove nacque la Lazio Campione del ’74, il rogo di Primavalle, l’assassinio di Vittorio Occorsio, le fisime e le topiche degli intellettuali che sdottoravano sugli opposti estremismi, l’Austerity, i padri spirituali delle squadre, le femministe, le giornaliste, i papponi del calciomercato, la strage di Piazza della Loggia. L’autore, insaporendo il suo dire con l’argot dell’alter ego di Geppetti (che nacque a Rieti nel ’33 e morì a Roma nel ’98), cui infligge due drammi familiari in linea con lo spirito del tempo, resta fedele alla cronaca, anche perché quella cronaca era già un romanzo criminale, anzi canagliesco.
Torniamo alla foto, a Giorgio che tiene il fucile e lo guarda come un bambino guarderebbe un pallone di cuoio che gli hanno appena regalato. Che cosa ci fa, un fucile nelle mani di un calciatore? Allora è normale, nella Lazio e non solo, un sottoprodotto della violenza reale che sta nelle strade e nelle piazze e che, come abbiamo detto, genera la violenza presunta, minacciata con l’arroganza di chi ha paura. Il capo biancoceleste è lui, il bomber, in ticket, diremmo oggi, con Pino Wilson, “il Baronetto”, il capitano. Nell’autunno del ’71 da cui siamo partiti, la Lazio è in serie B, e per risalire il presidente Umberto Lenzini si affida a Tommaso Maestrelli, proveniente dal Foggia. Dal Livorno, invece, arriva un centrocampista di calibro medio-basso, tale Luigi Martini.
E da lì scocca la scintilla. Martini, l’uomo che ben presto in tutti gli stadi i tifosi avversari chiameranno “fascio di merda”, riciclato da Tom come terzino sinistro, dà una scossa allo spogliatoio, mettendosi da subito in urto con i due Gracchi e creando un clan alternativo. Nella stagione successiva, in seria A, il seme della discordia inizia a dare buoni frutti, perché arriva dal Foggia, ovviamente su richiesta di Tom che lo conosce benissimo, il panzer di Nerviano, Luciano Re Cecconi, che con Martini ha fatto il militare…
Arrivano anche Petrelli scartato dalla Roma, Frustalupi (“distributore di opportunità e risorse come un acquaricciaro”) scartato dall’Inter, il terzo Mazzola, Ferruccio, che torna dal prestito alla Fiorentina, dal Como s’affaccia Renzo Garlaschelli (“un reverendo del puttanesimo”, leggi donnaiolo incallito), e dal Novara un portiere di classe, Felice Pulici. Terzo posto.
Per il primo, basta aspettare la primavera del ’74, il 12 maggio per la precisione, giorno del referendum sul divorzio, quando “er Gobbo” mette un rigore nella porta del Foggia e la Lazio, “dopo 74 anni, 4 mesi, 3 giorni e 90 minuti dal giorno in cui è nata”, diventa Campione d’Italia. Il resto dell’Italia, invece, non è campione di nulla.
È ostaggio delle Br e di sé stessa, si fa del male e finisce di dilapidare i crediti acquisiti con il boom economico. Il 2 novembre dell’anno successivo perderà Pier Paolo Pasolini, ed esattamente 13 mesi dopo PPP un altro “comunista” vero o presunto, un altro profeta inascoltato, Tommaso Maestrelli, unico pacificatore fra tante canaglie. “Nessuno – gli fa dire Carotenuto – può resistere alla sincerità e alla buona fede: nemmeno quelli in malafede. I semplici promettono di meno ma mantengono di più”.