Ambu è il suo vero nome, non il nome d’arte
Apr 19, 2023

Fine estate 1970. Lo spogliatoio sembra il piccolo bungalow di legno sul lago di Garda dello scorso agosto. Dentro siamo una folla di ragazzini che si infilano maglie, tute e scarpe con i tacchetti di gomma. Le mie sono inusualmente rosse e vengono direttamente dal mercato qui di fianco, quello del giovedì in viale Ungheria: cuoio rosso, tacchetti rossi, stringhe rosse, tutto rosso. Esco in un gruppetto e sono sul piccolo campo in sterrato dietro al campo vero, quello dove gioca la gloriosa Macallesi 1927. O meglio, Macca.

Nessuno in viale la chiama in un altro modo: vuoi mettere Macca con Macallesi? Non sappiamo perché si chiami così, con quel nome troppo normale. “Il proprietario della squadra è il signor Macallesi”, mormora uno che sa un sacco di cose. La ragione del nome risiede altrove ma noi non lo sappiamo, mentre continuiamo a storpiarlo in Macca come fanno da quasi cinquant’anni. Sono timido e pochissimo intraprendente, ma sono qui e non so come abbia fatto a vincere il disagio che mi saliva dalle gambe alla domanda: “Ma perché non fai il provino alla Macca?”.

   Perché sono una pippa, ecco perché. Lo so benissimo, e fin dalle prime parole di benvenuto del mitologico Giannino Radaelli, il gigantesco guru di generazioni di giocatori della Macca, be’, mi sento come un ladro in un pollaio deserto: io qui non ci sono mai venuto nemmeno da spettatore. (…) Ci fanno andare nel campo vero, quello dove giocano i grandi. C’è un ragazzino in maglia azzurra con fascia a strisce gialloblu che prende istruzioni dal signor Giannino.

Inter-Torino campionato 1980-81: Claudio Ambu segna il gol del definitivo 1-1

   “Cazzo, è Ambu”, dice qualcuno in tono reverenziale.

   Lui, quello che è Ambu, viene verso di noi con due palloni sotto le braccia.

   “Ciao ragazzi, adesso dividetevi in due squadre che iniziamo con un po’ di esercizi di riscaldamento”

   Le due squadre sono due plotoncini di una quindicina di ragazzini l’una. Ne conosco due o tre. Lui continua.

 “Lo so, ci rimarrete male ma il pallone viene dopo, prima corriamo un po’”

Sulle figurine Panini

   Iniziamo a correre avanti e indietro, prima di dedicarci a gare di velocità a gruppi di cinque. Arrivo sempre ultimo, come previsto dal mio personalissimo statuto, ma non me ne faccio un problema (…). Quindi faccio quello che riesco e mi siedo in panchina a guardare lui, quello con lo strano soprannome, Ambu.

Che è il suo cognome e non un nome d’arte, com’è chiaro a tutti tranne che a me, che dovrei intendermene dato che tutti pensano che il mio nome – Glezös, nome assurdo scelto dai miei italianissimi genitori in chiaro stato confusionale, visto che non riuscirò a pronunciarlo fino ai sei anni d’età – sia un soprannome. Com’è anche chiaro a tutti che Claudio Ambu diventerà un grande giocatore, anzi lo è già per noi e per mister Radaelli, che guarda le sue evoluzioni palla al piede con gli occhi di chi sa come, quanto e fino a che punto.

Ambu ha dodici anni e si muove con una facilità irrisoria sempre a testa alta, sa sempre cosa fare e come farlo, mette la palla dentro in tutti i modi e ha l’aria di quello che è tutto: mezzala, ala, centravanti e qualche altro ruolo non ancora inventato dal centrocampo in su. Quando il signor Giannino ti insegna un esercizio sulla palla, lo fa fare a Ambu e tu capisci subito come va fatto, quell’esercizio. Riuscirci è tutt’altra cosa ma lui non sbaglia mai, Ambu non sbaglia mai, e diventa un mantra sui gradoni alle partite dove vai a vedere solo lui.

Claudio Ambu nell’Ascoli

Averlo vicino agli allenamenti è un privilegio, con quella faccia da straniero come canta alla radio Georges Moustaki, anche se lui straniero non lo è e la nostra soggezione è giustificata da quello che Ambu sa fare (…) Ambu che sarà un campione, che andrà in serie A e in Nazionale ai Mondiali, che vincerà lo scudetto e la Coppa dei Campioni con l’Inter che dicono lo abbia già preso, e che grazie a Ambu ne vincerà di sicuro tanti altri, di scudetti e trofei. A fine allenamento esco dal bungalow e lui è davanti alla porta, sta parlando come sempre col mister Radaelli. Mi vede.

   “Ciao, scarpe rosse!”

   Quella notte dormo un po’ meglio.

   Non va meglio in campo. Ma Giannino Radaelli è uno di quei maestri prima di vita e dopo di calcio che non si arrendono tanto facilmente. Gira voce che abbia fatto la Resistenza e che fosse uno di quelli tosti, e a vederlo così grosso, i modi cortesi ma decisi e quel volto dai tratti di uomo antico che guarda al dopodomani, te l’immagini eccome a essere un osso duro per chiunque. Non per i suoi ragazzi: anche se non sei un granché ti fa tornare più volte, hai più di una prova d’appello, è lui a insistere con te e non viceversa. Così sette giorni dopo sono ancora lì nelle mie scarpe rosse per la solita razione di ultimi posti sugli scatti a cinque e inutili tentativi d’imitazione di Lui, Claudio Ambu. Appena entrato in campo una voce mi riporta alla realtà.

Nel Perugia

   “Oh, l’hai poi trovato il resto?”

   Walter mi guarda con una faccia che prende già in giro il Padreterno e ride con un’espressione metà pubblicità di un dentifricio e metà insegna del luna park dell’Idroscalo.

   “No, non l’ho cercato… ciao, Walter”

   È qui anche lui a provarci, quindi. Prima che glielo chieda, Walter mi evita un altro imbarazzo.

   “Sei qui per il provino, non ti ho mai visto prima”

Claudio Ambu alla Lazio nella stagione 1982-’83

   Allora lui gioca, è già nella squadra.

   “Hai voglia”, dice una voce da dietro.

È Paolo Baldoneschi, mio amico di cortile: ha il balcone di fronte alla mia finestra e lui il Walter lo conosce benissimo. Mi dice anche che è il secondo anno che Walter gioca in porta nella Macca ma che è già sicuro che vada all’Inter, che il maestro Radaelli stravede per lui, tanto che si dice sia passato sopra a un tentativo di retrodatare la data di nascita pur di entrare in squadra un anno prima. La soggezione è ancora più grande di quella provata per Dio Ambu. Quest’ultimo mi è apparso in campo come una calma visione mistica senza averlo mai visto prima, nemmeno nei campetti in via Salomone o dietro viale Ungheria. Ma il Walter sì che l’avevo visto per qualche minuto in latteria, nell’incidente con il lattaio incazzoso. Ecco perché era così sicuro di sé, mi dico, ecco perché non aveva alcuna paura, perché lui è il portiere della Macca. Adesso conosco una star e potrò dire fanfaronando in viale:“È mio amico, gioca con me”.

Ambu nel Monza, esultante dopo un gol realizzato al Taranto, al Sada. Stagione 1984-’85

   “Ma è bravo?”

   “Guardalo”.

   Cazzo, se è bravo. In mezzo al campo diviso in zone d’allenamento separate per gli altri mortali, Walter è tra due paletti ficcati in terra e si butta a destra e sinistra, salta, si accartoccia a terra in un lampo e il pallone lo prende sempre, con una facilità e con un’armonia di movimenti che ti dice: “Io sì, tu no”. Siamo tutti bambini ma lui sembra molto più grande e adulto di noi, e anche la stazza fisica vista da bordocampo sembra espandersi con i minuti che passano: tra tre minuti avrà due anni in più, tra cinque minuti altri due e a fine allenamento sarà maggiorenne. I palloni sono nelle condizioni di un cappotto che ha fatto la guerra e come in guerra gli piovono addosso da tutte le parti come granate, e quando Walter va in presa l’impatto del cuoio e della camera d’aria sulle sue mani emette una nota musicale leggera che si ripete ancora e ancora. Sempre più grande e grosso, con i paletti che fanno da porta che sembrano sempre più vicini tra loro, lo bombardano con una serie finale di rigori corti. Lo battono poche volte e a fine allenamento uno gli segna ed esulta. Lui sbotta.

   “Che cazzo gridi “Goool!”, cosa esulti per un rigore in allenamento?”

   “Adesso si incazza”, dico a Paolo.

   “Si è già incazzato”, sibila lui.

Estratto di “Zenga e i suoi fratelli – Milano, Inter e periferia anni Settanta”, scritto da Glezös per Indiscreto

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