“Tu-tuuuu.” Lasciò squillare due minuti. Riagganciò. Mezz’ora dopo riprovò. “Tu-tuuuu.” Niente, neppure stavolta.
Gli risposero quando ormai non ci sperava più. “Daniel?” chiese. “No, non sono Daniel, sono un amico, ha lasciato il telefono a me. È in camera. Ha lasciato detto che non vuole essere disturbato.”
“Ehm, scusi, gli ha detto che sono Mario, Mario Kempes? Volevo solo fare un salto lì e salutarlo.”
“Sì, gliel’ho detto.”
Silenzio. Kempes pensò che era passato tanto tempo, e che non era cambiato niente. Lui e Passarella erano lontani da una vita. Per allontanarli ancora di più la vita li avvicinò e ci mise in mezzo solo quaranta chilometri, mezz’ora di macchina sulla strada che porta da Fiorenzuola a Parma.
Era l’ottobre del 2001. Kempes era sulla panchina del Fiorenzuola, Passarella allenava il Parma. Kempes era a Fiorenzuola da due mesi e mezzo, ci era arrivato con un’operazione curiosa: la Global Foot Sport, un’agenzia internazionale di procura sportiva, voleva piazzare una ventina di giocatori argentini e uruguaiani in Italia. Avevano scelto Fiorenzuola. Fallì tutto nel giro di due settimane.
Passarella era a Parma, chiamato per sostituire Ulivieri. Gli avevano fatto un contratto di tre miliardi all’anno. Nel loro sfiorarsi di destini c’era una storia cominciata una notte di giugno di ventitré anni prima.
A Buenos Aires nel 1978 Passarella e Kempes vincevano il Mondiale davanti ai generali di Videla, in un’Argentina sotto dittatura, con le cartine bianche che cadevano dal cielo e una gioia da urlare in faccia al mondo, perché fino a quel momento il mondo si era girato dall’altra parte. Vinsero, ma non allo stesso modo.
Passarella era il capitano; il “Caudillo”, aveva carisma, aveva la faccia che hanno quelli che sono piccoli e sembrano alti, alzò la Coppa del Mondo davanti ai generali, strinse mani: Passarella era l’Argentina che ci volevano far credere.
Kempes aveva i capelli lunghi, avrebbe potuto essere un chitarrista, l’aria sgualcita e allegra che hanno gli argentini che si lasciano dietro il loro paese, senza nostalgia, aveva visto il mondo, giocava nel Valencia in Spagna, l’avevano pagato seicentomila dollari, unico tra i ventidue di Menotti a giocare all’estero, per questo i compagni lo guardavano con invidia e sospetto. Kempes era l’Argentina come avrebbe voluto essere.
La notte della finale vinta con l’Olanda, l’Argentina campione del mondo sfilò davanti ai militari. Tutti i giocatori meno uno strinsero la mano ai generali. Il capitano Passarella era il primo della fila, Kempes l’ultimo. Quando venne il suo turno Kempes si girò dall’altra parte. Non strinse mani. Non divise la notte più bella della sua vita con nessuno.
Da quel giorno in poi visse di calcio tra l’Albania e l’Indonesia, il Venezuela e la Bolivia, la Spagna e Fiorenzuola. Fu lì in Emilia che ventitre anni dopo ritrovò il suo passato, ma il passato non si fece trovare al telefono.
Furio Zara