«Gabriel Gomez non deve giocare, altrimenti faremo saltare in aria casa sua». Il fax anonimo ricevuto dalla Nazionale colombiana alla vigilia della seconda partita del Mondiale ’94 rende bene l’idea del clima che si respirava all’interno dello spogliatoio dei Cafeteros. Qualcuno, nel Paese, non aveva preso bene alcuni errori del centrocampista nella gara d’esordio persa contro la Romania e ne aveva chiesto «gentilmente» l’esclusione. D’altronde la Colombia arrivava a quel torneo con una lunga serie di vittorie, compreso un clamoroso 5-0 sull’Argentina, e Pelé l’aveva addirittura inserita nel lotto delle pretendenti al titolo: uscire al girone, per gli scommettitori, sarebbe stata una tragedia.
Gomez, naturalmente, non ne vuol sapere di giocare, ma qualcuno in campo ci deve pur andare. E’ il 22 giugno e sul prato di Pasadena, lo stesso dove pochi giorni dopo l’Italia perse la coppa ai rigori, i sudamericani – se vogliono passare il turno – devono battere gli Stati Uniti: un avversario alla portata, seppur padrone di casa. Così, capitanati dall’indimenticabile criniera di capitan Valderrama, la Colombia scende al Rose Bowl, intimorita ma convinta di potercela fare: non c’è lo storico portiere Higuita, che aveva appena scontato 7 mesi di carcere per aver fatto da mediatore in un sequestro di persona, c’è invece Luis Herrera, a cui avevano rapito il figlio poche settimane prima.
E c’è pure il numero 2, Andrés Escobar, titolare inamovibile della selezione allenata da Maturana. Un terzino veloce, non un fenomeno, ma con movenze eleganti, tanto che il calcio europeo gli aveva già messo gli occhi addosso. Quel giorno però, sarà un calo di concentrazione o semplice sfortuna, il difensore 27enne sbaglia clamorosamente il tempo dell’intervento su un cross da sinistra e infila la sfera alle spalle del suo portiere: un autogol assurdo che spedisce gli USA agli ottavi e manda a casa i colombiani, battuti 2-1. Andrés si stende sul prato con le mani sul volto, quasi incredulo: è la faccia buona di un calcio violento, ironia della sorte l’errore decisivo l’ha commesso proprio lui.
Quando la squadra torna a Medellin, una settimana più tardi, ad aspettarla ci sono solo pochi tifosi: il flop Mondiale non è stato digerito bene. «A tutti capita di sbagliare», sussurra Pamela nell’orecchio di Escobar, suo futuro marito. Eppure il giocatore sente che ha ben poco da star tranquillo: nelle strade regna il caos, il suo omonimo Pablo – re del narcotraffico – era stato ucciso sei mesi prima e il cartello di Cali stava pian piano prendendo il sopravvento. Andrés, nonostante il clima, non si rinchiude in casa ma prova a tirarsi su con l’aiuto di amici e parenti. Va addirittura in discoteca, sabato 2 luglio, lasciando la propria auto in un parcheggio poco distante dal locale.
E’ proprio lì che, intorno alle 4 di notte, si consuma la tragedia. Un gruppo di quattro sicari lo riconosce e lo fredda con sei colpi di mitraglietta urlando – così riportano alcune ricostruzioni – «grazie per l’autorete». L’autore del gesto viene preso subito, tale Humberto Munoz Castro, condannato a 43 anni di galera, e con lui i suoi compici. Ma sul movente resta il mistero: un errore in campo poteva davvero costare la vita? Oggi, a quasi 26 anni di distanza, è stato preso il mandante di quell’omicidio: Juan Santiago Gallon Henao, narcotrafficante proprietario dell’auto dove fuggirono i banditi, che a quanto pare perse un sacco di soldi in scommesse a causa di quella sconfitta della Colombia. Un po’ di giustizia per Andrés, morto per colpa di un autogol.
Nicola Bambini