Capelli lunghi e basettoni, calzettoni sgonfi alle caviglie delle ali destre. Anche il calcio, in quel Sessantotto, intuì che tirava un’ aria strana, arrabbiata, affamata di rivoluzione, e per restare al passo s’inventò qualcosa di nuovo. Un «cambio», appunto. Domenica 29 settembre 1968, parte il campionato di serie A: per la prima volta in panca, accanto al mister e al portiere di riserva (nato nel 1965), siede il numero 13, cioè un giocatore di movimento che può sostituirne un altro a partita in corso. Finisce l’epoca dei feriti ricoverati all’ala sinistra fino al 90′. D’ora in poi potranno essere rimpiazzati da compagni sani. A suo modo, è una rivoluzione.
E siccome la rivoluzione spaventa sempre i potenti, quel 29 settembre le grandi ci vanno piano con l’innovazione. L’Inter lascia in panca il suo 13 (Bedin), la Juve osa il suo (Sacco) solo al 72′ perché è in affanno a Bergamo, il Milan aspetta l’ 82′ per sostituire Prati con Fogli. Quasi tutti i mister si portano democristianamente in panca un centrocampista, che può entrare davanti o dietro, dove serve. Il Toro approfitta della novità per togliere quel rivoluzionario di Mondonico, che sembra Meroni e va ai concerti dei Rolling Stones. Ha segnato al 71′ il gol partita al Pisa. Non importa. Quattro minuti dopo lascia il posto al più regolare Rampanti.
Il primo numero 13 a mettere piede in campo è Sandro Vanello, che entra al 1′ della ripresa di Napoli-Verona, inchiodato sullo 0-0. È un ragazzo di 20 anni, cresciuto nell’Inter, un talento di buona famiglia, il padre commercia combustibili.
«Cadè, allenatore del Verona che mi aveva già fatto giocare qualche amichevole, mi disse: “Adesso entri”. Oggi una riserva si scalda con movimenti meccanici, io non sapevo cosa fare: la panchina era una novità. Entro, esordio in A, e dopo 10 minuti picchio un diagonale da destra che sorprende in contropiede il grande Zoff, friulano come me. Il San Paolo era pieno da toglierti il fiato. Immaginatevi la gioia… Poi finì 1-1».
Il primo gol di un panchinaro nella storia del calcio italiano.
La rivoluzione di un ragazzo sveglio che aveva la testa veloce e visse con coscienza l’aria dei tempi.
«I tre anni di liceo li passai al Kennedy di Milano. Al pomeriggio mi allenavo all’Inter, non seguivo le assemblee politiche, ma restavo aggiornato. Helenio Herrera mi portava sempre con la prima squadra, quando mi parlava mi emozionavo. Forse avrei potuto diventare un giocatore da Inter, ma non ho mai considerato il pallone il mio futuro. Preferivo studiare. Il mio idolo era l’architetto Frank Lloyd Wright. Dopo i 5 anni a Palermo, passai al Bologna per potermi laureare in Architettura. Saltavo parecchi allenamenti, quando ci andavo Pesaola mi sfotteva: “Anche lei qui, professore?”»
Terminata la carriera calcistica Sandro Vanello ha aperto uno studio d’architettura a Gorizia che ha curato un cantiere per l’università di Trieste.
Negli anni 80 è stato presidente del Gorizia basket e consigliere di Lega. Nel basket la panchina non è un trauma, è la vita. Difficile che qualcuno sedendosi ci sbatta la tuta sopra o segni un canestro e poi punti il dito contro il coach.
«Non succedeva neppure nel calcio, ai miei tempi. Oggi il sistema ha trasformato i giocatori in divi. Hanno così tanto potere che alcuni continuano a giocare anche se tecnicamente non hanno più nulla da dare».
Lontani giorni quei giorni da hippies, quando il giovane Vanello portò a termine la rivoluzione. Prese un futuro strumento di sofferenza, la panchina, e lo trasformò in un trono di gioia. Il trampolino verso il primo gol in A.
Fonte Storie di Calcio