Il numero 7 riceve palla sulla destra, ma è subito braccato. Con una finta si libera del suo diretto marcatore e si lancia a gran velocità verso la porta avversaria. Come Hermes, il messaggero degli dei greci, lui, messaggero del dio del calcio, sembra avere le ali ai piedi. La sua corsa è inarrestabile, i suoi dribbling ubriacanti. I difensori saltati come birilli, il pubblico sugli spalti si stropiccia gli occhi di fronte a tanta meraviglia. Poesia in movimento, il pallone diventa arte. L’arte dei numeri 7, dei Best, dei Meroni, dei Causio. E di Vinicio Verza, un brasiliano nato per caso a Bora Pisani, in provincia di Padova.
“Piede magico, tiro bruciante, invenzioni a gogò”, così Massimo Burzio definisce Vinicio Verza su “Hurrà Juventus” nel novembre 1987… Ma Vinicio Verza come definirebbe sè stesso?
“Un calciatore atipico, dotato di grandi qualità tecniche, funambolico, ma discontinuo. ‘Il Milan ha il suo brasiliano’, così mi definirono sulla copertina di ‘Forza Milan’ e trovo che sia una definizione azzeccata”.
Non solo estro Vinicio Verza, ma anche duttilità e sostanza se è vero che Gibì Fabbri a Cesena la schierò addirittura nel ruolo di mediano.
“Io lasciai la Juventus perché non volevo diventare il nuovo Furino, ritenendomi non adatto a interpretare quel tipo di ruolo, ma poi a Cesena Gibì cominciò a schierarmi davanti alla difesa e in quella posizione giocai anche nel Milan”.
I suoi primi calci ad un pallone li tira nel San Carlo, vicino a Casale Monferrato in Piemonte (la sua famiglia si era infatti trasferita a Vigliano Biellese) ed è lì che gli osservatori della Juve rimangono intrigati dal suo talento… Per un ragazzino vivace e movimentato come il Verza dell’epoca non dev’essere stato semplice l’impatto con l’austerità e il rigore tipici di quello che era conosciuto una volta come “Stile Juventus”.
“Ho rimpianto i tempi del San Carlo, quando, da ragazzino, ero libero di giocare seguendo il mio istinto e assecondando il mio estro, cosa che alla Juventus non potei più fare. L’impatto col mondo bianconero non fu dei più semplici, ma grazie al mio carattere esuberante riuscii comunque a superare le difficoltà iniziali”.
Dalla Juventus al Vicenza per farsi le ossa e accumulare esperienza in vista di un futuro ritorno alla casa madre, quanto è stata importante quella parentesi in biancorosso nella sua crescita professionale?
“Direi che fu determinante e oggi, con il senno di poi, aggiungo che sarebbe forse stato meglio per me rimanere a Vicenza perché lì avrei giocato da titolare in Serie A e sarei stato protagonista, mentre alla Juventus fui relegato in panchina per quattro anni, chiuso da giocatori straordinari del calibro di Causio, per citarne uno”.
A Vicenza ci arriva insieme a Paolo Rossi, anche lui di proprietà della Juve… Mi viene in mente una scena: assist di Verza, gol di Rossi. Era una scena ricorrente?
“Direi di sì, il binomio Verza-Rossi fu senza dubbio vincente in quella stagione a Vicenza, anche perché tra noi c’era una grande intesa, avendo percorso insieme tutta la trafila delle giovanili bianconere”.
Le buone prestazioni tra le fila del Lanerossi le riaprono le porte della Juventus: 26 febbraio 1978, cosa ricorda di quel giorno, quello del suo esordio in maglia bianconera?
“Fu una giornata particolare, perché inizialmente non ero stato nemmeno convocato per quella partita. Infatti ero rimasto a Torino in quanto reduce da una distorsione alla caviglia, ma fui chiamato in extremis e così, nonostante l’infortunio, feci il mio esordio in Serie A, a soli 19 anni. Per un ragazzo di quell’eta, all’epoca, debuttare nel massimo campionato era un traguardo eccezionale”.
In quella Juventus c’è un certo Franco Causio, il Barone, che gioca con il numero 7 sulle spalle e per lei non è semplice trovare spazio, ma ciò non le impedisce di contribuire alla conquista dello scudetto 1978. Che sapore ha ancora oggi per Vinicio Verza quel trionfo?
“Per un ragazzino com’ero io allora conquistare uno scudetto al fianco di Scirea, Causio, Bettega, riuscendo anche a contribuire in prima persona con un gol a Bergamo, rappresentò qualcosa di straordinario”.
Nella stagione successiva la Juventus non riesce a bissare il successo dell’anno prima in campionato, ma conquista la Coppa Italia e Verza mette a segno il gol più bello della Serie A 1978-‘79 al Comunale contro la Fiorentina. Ci descrive quella prodezza?
“Lancio di Causio dalla destra, stoppai il pallone di petto, saltai Galbiati con un sombrero e senza che la palla toccasse terra, la calciai al volo all’incrocio dei pali. Fu una prodezza straordinaria, premiata alla ‘Domenica Sportiva’ come miglior gol di quella stagione”.
Ma è sullo scudetto 1980-‘81 che lei appone la sua firma indelebile: penultima giornata, la Juve è impegnata a Napoli, Verza subentra a Marocchino e al 64′ sigla il gol che vale un campionato. Se dovesse riassumere la sua carriera in un fotogramma, sarebbe quello?
“Direi che quel gol fu piuttosto il mio regalo d’addio alla Juventus. Regalo che la Juventus ricambiò cedendomi al Cesena. Quella rete valse lo scudetto e segnò al tempo stesso la fine della mia avventura in bianconero”.
Nell’estate dell’81 passa al Cesena, con il quale conquisterà la salvezza ai danni del Milan, autocondannandosi di fatto alla Serie B, dal momento che l’anno dopo approderà in rossonero chiamato da Giussi Farina, suo presidente ai tempi del Vicenza. Che emozione è stata riportare il Diavolo in Paradiso dopo averlo mandato all’Inferno?
“Fu un’emozione indescrivibile, anche perché esser stato richiamato da Farina per me significò tanto, fu un’enorme gratificazione la sua stima nei miei confronti. Stima che poi, però, venne meno al termine della mia ultima stagione in rossonero. Quella di trasferirmi al Milan fu una scelta sofferta, perché avrei potuto continuare a giocare in Serie A con il Cesena, ma non mi sono mai pentito, poiché fu una soddisfazione essere tra i principali artefici della risalita del Diavolo”.
Dopo tre anni in rossonero si trasferisce a Verona, dove segnerà, in una partita di Coppa Italia contro il Como, forse il gol più bello della sua carriera e uno dei più belli mai visti su un campo da calcio. Gol del genere appartengono al bagaglio dei fuoriclasse, non pensa di aver raccolto meno di quanto il suo talento avrebbe potuto e forse dovuto consentirle?
“Forse avrei potuto raccogliere di più o forse no. Ad ogni modo, sono rimasto sempre me stesso, non ho mai accettato compromessi, di nessun genere. Mi resta forse il rammarico di non essere arrivato in Nazionale, nonostante lo avessi meritato nel periodo rossonero, ma sono comunque soddisfatto dei traguardi che ho raggiunto”.
Vinicio Verza chiude la carriera nel Como a soli 30 anni, stanco di un calcio nel quale non si riconosceva più e che non lo divertiva più.
È per questo che ha deciso di cambiare completamente vita per dedicarsi al commercio? È soddisfatto di ciò che fa oggi oppure un pallone, di tanto in tanto, torna a rimbalzare nell’angolo forse più remoto della sua mente?
“A trent’anni per il calcio dell’epoca ero ritenuto vecchio, mentre oggi si gioca fino a quarant’anni. Quando arrivai a Como, credetti inizialmente di essere importante alla luce dei miei trascorsi, per ciò che avevo costruito in tredici anni di onorata carriera, ma presto mi scontrai con l’amara realtà di una società che mi mise da parte per dare spazio ai giovani che dovevano essere valorizzati per poi essere venduti bene. La delusione fu talmente grande che mi portò alla decisione di smettere di giocare. Non rimpiango nulla, anzi, aggiungo che sono felicissimo della scelta che ho fatto, anche perché ho avuto la possibilità di stare più vicino alla mia famiglia, che, per forza di cose, durante la mia carriera da calciatore avevo un po’ trascurato. Quella di dedicarmi al commercio è stata una decisione dettata dalla mia voglia di mettermi ancora una volta in gioco e devo ammettere che si è rivelata una decisione giusta, non tanto dal punto di vista economico, quanto da quello personale.
Ritornando all’esperienza di Como che segnò la fine della mia avventura tra i professionisti, forse molti non sanno che in realtà continuai a giocare ancora per qualche anno, seppur nei dilettanti. Mi sentivo ancora giovane e volevo tenermi in forma, così andai avanti per altre tre stagioni finchè un gravissimo infortunio al ginocchio non mi costrinse a smettere definitivamente. Continuai di tanto in tanto a scendere in campo in occasione di partite di beneficenza, ma a causa di acciacchi vari non mi è più possibile. Oggi al pallone non penso più, guardo il calcio in tv quando capita, ma per me non rappresenta un’ossessione. Da quando ho appeso le scarpette al chiodo comunque non sono più entrato in uno stadio, nemmeno a San Siro”.
Cosa del Verza calciatore c’è oggi nel Verza commerciante e cosa di questo Verza avrebbe voluto trasfondere in quello di allora?
“Nel Verza calciatore avrei voluto trasfondere l’esperienza dell’uomo che sono oggi, mentre nel Verza commerciante è rimasto qualcosa del calciatore di trent’anni fa, perché anche nella vita di tutti i giorni non accetto compromessi e poi perché nel mio lavoro attuale cerco di mettere un po’ dell’estro che mi contraddistingueva sul campo, quella fantasia che caratterizzava le mie giocate”.