Andava fiero dei suoi ragazzi, dei suoi “manzi”, il Paròn Nereo Rocco. Famiglia viennese, con il cognome originariamente Rock, un nonno scappato con una spagnola domatrice di cavalli al circo e la macelleria del padre ben avviata al civico 1 di via Slataper a Trieste, arriva a Padova con l’etichetta di catenacciaro, che diventa addirittura un insulto. In trasferta la squadra viene accolta con insulti, sputi, lanci di monetine, e Rocco pensa di cambiare modulo. Ma capitan Scagnellato lo convince a proseguire, perché così arrivano soldi e risultati. Il calcio di Rocco, tuttavia, è tutt’altro che difensivista. A Treviso ha ottenuto tre anni di buoni risultati con Chiodi riproposto libero. “Praticavamo un gioco di cui nessuno capiva niente” racconterà, “per due anni non perdemmo in casa. Mazza della Spal ci insultava, però anche lui, quando la sua squadra affrontava gli squadroni, tentava di adeguarsi”. E anche uno squadrone come l’Inter di Foni, e poi del grande Helenio Herrera, il tecnico a lui più affine sul campo e più lontano per atteggiamenti, personalità fuori dal campo, riscoprono il valore di quella reinterpretazione del Verrou, il catenaccio dello svizzero Rappan.
Il Padova promosso in A nel 1955.
La leggenda nasce a Padova – Ma in realtà quel Padova, come tutte le squadre che Rocco allenerà in futuro, è sì costruito su difensori rudi, giocatori cui diceva “Prendete tutto quel che vi capita a tiro, se è la palla pazienza”. Però gioca con due punte più un trequartista in una sorta di 1-3-3-3 moderno, fluido, modellato sulle esigenze della squadra e le caratteristiche dei giocatori. “Rocco ha avuto la fortuna e la sfortuna di allenare il Padova” diceva Cesare Maldini. “La fortuna perché a Padova è nata la sua leggenda, e posso garantire che giocare all’ Appiani non era facile per nessuno. La sfortuna perché lì gli hanno appiccicato l’ etichetta del catenacciaro. La piccola squadra di provincia che dà fastidio alle grandi oggi fa simpatia, allora meno. Rcco aveva una difesa di marcantoni, lui li chiamava ‘i miei manzi’, ma davanti la qualità gli piaceva: Hamrin, Stivanello, Brighenti, Mariani, e un regista come Rosa. Rocco stava al gioco, scherzava sul catenaccio, ma credo che sotto sotto ci soffrisse. Se oggi uno va a rivedersi i filmati del Milan che vince la Coppa dei Campioni si accorge che gli schemi c’ erano, eccome”.
Rocco a guidare l’allenamento del Padova.
Da Cavalca – Il Padova dei manzi si cementa nelle lunghissime cene da Cavalca a base di baccalà e Merlot. “Ci alleniamo tutti i giorni dalle 9 alle 12 e dalle 14.30 alle 18. C’è chi si spoglia e chi no” raccontava a Luigi Montobbio della Gazzetta dello Sport il 4 marzo 1958. “L’allenamento è tecnico, fisico e morale, sono per me tutti e tre alla pari. Non uso tabelle e non faccio lezioni teoriche, la mia tabella è il campo e lì, con esempi pratici, al martedì rivediamo gli sbagli fatti alla domenica”.
Hamrin tra Azzini e Scagnellato.
L’inventore dello spogliatoio – Alle sottigliezze tattiche preferisce quelle dell’animo umano, Rocco, che ha inventato lo spogliatoio nel senso attuale del termine, che ha esaltato lo spirito di squadra, che sapeva motivare e frenare gli entusiasmi eccessivi con la stessa perizia. Un sabato sera, racconta Scagnellato a Gigi Garanzini per il suo magnifico libro sul Paròn, si presentano insieme a Via del Santo e sentono da una finestra aperta le voci di alcuni calciatori che giocano a carte. Rocco vorrebbe andar su e fare una scenata, ma il capitano lo ferma. “Noi domani vinciamo – gli dissi – poi ci penso io, da capitano” . Ed, in effetti, fu esattamente quanto accadde. Il martedì successivo alla partita, Scagnellato, come al solito, prende i soldi del premio-partita ed inizia a spartirli tra tutti i componenti della squadra. Una volta arrivato il turno del gruppetto colpevole disse: “Il vostro premio è congelato, lo metto da parte. Il perché lo dovreste sapere.” Nessuno fiatò. Ecco un chiaro esempio della collaborazione e dello spirito di gruppo che il paròn aveva instaurato con i suoi calciatori, con i veci, specialmente”.
I “manzi” in serie A – Esonerato dalla Triestina il 21 febbraio 1954, dopo due settimane è sulla panchina del Padova. L’ha chiamato il presidente Pollazzi, concessionario Fiat, per salvare la squadra, penultima con 17 punti in serie B. Rocco lascia la macelleria di famiglia, in cui è nel frattempo tornato (che chiuderà solo nel 1996), e torna alla passionaccia per il pallone. “Se mi date la casa, più un tanto al mese e mi lasciate tornare a Trieste tutte le settimane senza creare problemi, posso anche venire a tentare di salvare la barca. Però non prometto niente; per il futuro vedremo”. Il futuro è una palla di cannone accesa, e i manzi la stanno quasi raggiungendo. La salvezza è solo il primo passo. L’anno successivo le reti concesse passano da 40 a 27, e gli orizzonti si trasformano. Il Padova è secondo dietro il Lanerossi Vicenza e promosso in serie A.
Una fase di Padova-Juventus del 23.3.1958
Hamebus Piolam – Seguono due salvezze tranquille. Rocco fa rinascere campioni dati per bolliti come Blason, decaduto a Verona dopo i giorni di gloria all’Inter, e fa esplodere giovani campioni come Nicolè, che brucia in pochi anni una carriera da predestinato. Fisico bello quanto leggero, capelli ondulati, fa scrivere a Gianni Brera “Habemus Piolam: Ni-co-lè!”, dopo un gol alla Francia di Fontaine. Fa in tempo a diventare il più giovane marcatore (18 anni e 258 giorni) e più giovane capitano della Nazionale (21 anni e 61 giorni), e a 27 anni ha già smesso.
“Capitava che verso sera passasse da via Castelfidardo, a casa mia” ha rivelato a Gianni Mura. “La prima volta che me lo son visto davanti sulla porta della latteria, accompagnato dall’oste Cavalca, manca poco che svengo. Cosa beve, signor Rocco? Un caffè, grazie. Umanamente, nel calcio come Rocco non ho trovato nessuno, ancora oggi mi sento coi suoi figli. Avevo 16 anni quando mi dice di aggregarmi alla prima squadra. Solita domenica: messa al Santo, pranzo da Cavalca, poi all’Appiani a piedi. Penso che mi abbia chiamato per fare esperienza più da vicino, invece appena siamo negli spogliatoi mi dice: Cambiati che giochi. Forse faccio una faccia strana, perché aggiunge: se te lo dicevo ieri non dormivi e adesso saresti uno straccio. In campo, fa’ quello che ti senti di fare. Battiamo l’Inter 3-2. E arriva anche il giorno che a Padova c’è la Juve. L’avevo vista da tifoso vincere 2-0, gol di Mari e Martino, un argentino incredibile, uno dei miei idoli insieme a Boniperti. Stavolta vince il Padova, segno un gol anch’io su lancio di Rosa, dribblando Nay e Garzena e battendo Romano. Dal campo vedo Boniperti e dico che, con Rivera, è il più forte calciatore italiano che abbia mai visto. Sapeva fare tutto, dal centravanti al mediano”. Dopo la prima stagione a Padova, che chiude undicesimo, Nicolè cede proprio alle sirene della Juve. Diventa bianconero per 70 milioni più il prestito di Kurt Hamrin.
Brighenti in attacco in Padova-Udinese 6-1 del 21.2.1960
Un terzo posto che sa di storia – Nell’estate del ’57, Rocco chiede anche un altro nobile decaduto, l’attaccante della Triestina Sergio Brighenti. I tifosi contestano, perché partono anche Sarti e il capocannoniere Bonistalli. Pollazzi, con la possibilità, poi restata solo teorica, della retrocessione a tavolino per un illecito contro il Legnano di due anni prima, presenta le sue dimissioni, salvo ritirarle quando è ormai chiaro che Rocco ha messo le basi per un miracolo. Davanti al portiere Pin, il libero Blason fa tornare indietro il tempo: insieme ai mastini Pison, Azzini e Scagnellato, è il pilastro difensivo della “squadra dei panzer”. Sui magnifici quattro gladiatori poggiano le fondamenta di un attacco tutto tecnica e fantasia. Davanti al bunker difensivo, ha reinventato regista l’ombroso Humberto Rosa, che aveva fallito da attaccante alla Sampdoria. Il suo impatto con il Paròn non è dei migliori, ogni volta che gli dà del mona all’inizio è un colpo al cuore (in spagnolo mono vuol dire scimmia), ma presto Rosa supera la fase Lost in translation e diventa il regista perno del Padova dei miracoli. Il Catenaccio diventa spettacolo. Il 2 febbraio 1958, all’Appiani cade il Genoa 6-3, con quattro gol di Hamrin, e il Padova entra nel gruppo delle grandi. Perderà il secondo posto solo all’ultima giornata contro la Fiorentina. Il resto è storia.
Alessandro Mastroluca