Ci ricordiamo i gol delle nostre squadre del cuore (ogni giornalista ne ha una, non raccontiamoci storie), come ci ricordiamo i gol dell’Italia. Quelli che hanno scritto la storia del calcio, come quelli che hanno rappresentato la bellezza di un gesto atletico. Difficilmente si tengono a mente quelli di un avversario. A me – prometto, unico accenno personale – è rimasta impressa a fuoco nella mente una rete di Roberto Baggio, quando vestiva di bianconero. Accade il 17 aprile 1993, anni in cui potevi ancora accedere a una tribuna stampa senza sottoporti alla trafila dell’accreditamento: una tessera Coni e via, si apriva ogni mondo. Quel giorno mi presento al Meazza di Milano, non come giornalista ma come tifoso. Milanista, ovviamente, causa ascendenze alessandrine e riveriane. Erano tempi in cui era bello essere rossoneri, non solo perché la squadra vinceva, ma perché la rivoluzione sacchiana aveva aperto una strada nuova per il calcio italiano tutto. Da una parte il Milan prepotente di Fabio Capello, dall’altra la Juventus di transizione di Giovanni Trapattoni: il primo in cammino verso lo scudetto, la seconda verso il quarto posto.
Tra le due squadre ci sono 13 punti di differenza, che fanno ipotizzare un match senza storia. Eppure alla fine del primo tempo i bianconeri sono avanti 2-1, il vantaggio lampo di Marco Simone è stato ribaltato dalla doppietta di Andreas Möller. Uno pensa alla rimonta nella ripresa, a Baggio bastano 19 minuti per vanificarla, realizzando un capolavoro. Lo stesso Möller recupera palla sulla trequarti e verticalizza. Il numero 10 è sulla linea di centrocampo, a pochi metri in linea d’aria diretta dal mio sguardo (la tribuna stampa era molto più in basso rispetto alla piccionaia attuale), che segue sconfortato l’azione sapendo già bene come andrà a finire. Il velo su Alessandro Costacurta è una somma di genio e rapidità di esecuzione: la palla scivola nella metà campo rossonera, con Baggio subito dietro. Fuga veloce verso l’area, inseguito inutilmente da Franco Baresi. Sebastiano Rossi è saltato in uscita, insieme con il rientrante Stefano Nava, e la palla depositata in rete per il 3-1. Applausi.
Un gol che sarebbe piaciuto da matti a Gianni Brera, morto pochi mesi prima in un incidente stradale. Fu lui il primo a indicare quale sarebbe stato il destino di Baggio quando lo vide realizzare una doppietta alla Bulgaria in amichevole il 20 settembre 1989: «Ho avuto la fortuna di vedere Meazza – scrisse – e ho pensato a lui quando ho visto Baggio». Purtroppo non possiamo affermare il contrario. A chi non piacerebbe cliccare un link e vedere in azione il centravanti due volte campione del mondo nel 1934 e 1938? Oppure una partita del Grande Torino come dell’ineguagliabile Ungheria di Ferenc Puskás? Pressoché impossibile, purtroppo: ci si deve accontentare di spezzoni video di bassa qualità, troppo poco per la cultura dell’immagine in cui siamo immersi. Allora ci si fida della tradizione scritta, quella che raccontava dei gol alla Meazza, con fuga verso l’area avversaria, il portiere invitato a uscire e quindi irriso in dribbling con stoccata finale. Baggio ne è stato uno dei più fedeli interpreti. Cercate la partita della Fiorentina a Napoli, 17 settembre 1989. Lui in campo e Diego Maradona (non al meglio), in panchina con un insolito numero 16. Baggio riceva palla sulla metà campo, salta prima Alessandro Renica, poi Giancarlo Corradini e quindi deposita in rete per l’1-0 dopo aver eluso l’uscita bassa di Giuliano Giuliani (poi Maradona entrerà e il Napoli vincerà 3-2).
È la quinta stagione di Baggio alla Fiorentina, la più bella. Era arrivato nel 1985 da Vicenza, città che amava il bel calcio (quello di G.B. Fabbri) e allevava fenomeni (Paolo Rossi). Un 18enne baciato dal talento e accompagnato dagli infortuni: due giorni dopo aver firmato per i viola si procura una lesione al crociato anteriore destro con interessamento del menisco. Un problema che potrebbe indurre Ranieri Pontello a recedere dal contratto, ma il presidente scommette su quel ragazzo, destinato a raccogliere l’eredità di un altro grande numero 10 come Giancarlo Antognoni. Lo fa anche quando Baggio è vittima di un nuovo infortunio al ginocchio che, in pratica, lo obbliga a saltare le prime due annate toscane. La terza è quella del disvelamento al calcio nazionale. Il 20 settembre 1987, seconda giornata di campionato, la Fiorentina si presenta a San Siro, avversario il Milan appena affidato ad Arrigo Sacchi.
Baggio firma il 2-0 finale con una finta che manda in confusione due marcatori. Saltare Giovanni Galli in uscita è molto semplice. Alla Meazza, per l’appunto. Tre stagioni in crescendo: 6, 15 e 17 gol che lo trasformano nel leader della squadra e nell’idolo della Fiesole. Tocca il momento più alto accompagnando la Fiorentina alla finale di Coppa Uefa, persa nel doppio confronto con la Juventus. Quella del 16 maggio 1990, al Partenio di Avellino (lo stadio di Firenze è rimasto chiuso causa lavori necessari per il Mondiale), è la sua ultima apparizione in viola. Poco dopo Baggio diventa un caso nazionale.
Antonio Caliendo è il suo procuratore, trova un accordo con il Milan. Al tempo stesso Pontello si mette d’accordo proprio con la Juventus per una cessione che porterà 25 miliardi di lire nelle casse viola. Silvio Berlusconi e Adriano Galliani, presidente e amministratore delegato rossoneri, si tirano indietro. L’annuncio della cessione di Baggio all’odiato rivale bianconero infiamma Firenze: scontri, feriti, telefonate minatorie e scritte contro Pontello, una contestazione che si insinua fin dentro il Centro tecnico di Coverciano, dove l’Italia sta preparando il Mondiale organizzato in casa. L’appuntamento che, di lì a poco, distoglierà l’attenzione dell’affaire-Baggio. L’Italia è tra le favorite al titolo, non solo perché è la squadra di casa. Il ct Azeglio Vicini ha portato nella Nazionale maggiore la freschezza del gioco espresso con l’Under 21. Diversi titolari sono ragazzi tirati su personalmente, a questi si aggiunge lo straordinario e unico momento vissuto da uno completamente estraneo al giro degli azzurrini: Salvatore Schillaci. Nel 1989 è approdato dal Messina alla Juventus, dove attende Baggio. Insieme diventano il simbolo della squadra azzurra. Vicini inizialmente preferisce ancora Gianluca Vialli al neobianconero, ma l’attaccante sampdoriano non è al meglio. Baggio resta in panchina contro Austria e Stati Uniti, parte titolare contro la Cecoslovacchia e lascia subito il segno: il 2-0 accelerando da metà campo, dopo dialogo con Giuseppe Giannini e solita fuga solitaria verso la porta, è considerato uno dei più bei gol nella storia della competizione. Dopo aver eliminato Uruguay e Irlanda, nella semifinale contro l’Argentina il ct sceglie a sorpresa di riproporre Vialli, con Baggio in panchina, da dove si alzerà per realizzare il rigore nella serie finale. Una serie che costa l’eliminazione.
Gli anni dal 1990 al 1994 sono tra i più significativi per Baggio in azzurro. Anzi, il Mondiale statunitense è ancor più suo di quello italiano. Il presidente federale Antonio Matarrese ha voluto a tutti i costi Sacchi in panchina, con l’idea di ripetere i successi e il bel gioco del Milan. Ma le rigidità tattiche del tecnico non fanno presa in Nazionale. Le vittorie sono faticate, la signoriain campo un’ipotesi e tutti aspettano il fallimento negli Usa. L’Italia perde al debutto con l’Irlanda e si rifà battendo la Norvegia, una partita che passa alla storia quando Sacchi fa uscire Baggio dopo 20 minuti per sostituire l’espulso Gianluca Pagliuca con Luca Marchegiani.
Il labiale del numero 10 non lascia adito a dubbi: «Questo è matto!», rivolto al ct. Il successivo 1-1 con il Messico regala una qualificazione al terzo posto per differenza reti e la temibile Nigeria come avversaria agli ottavi. Gli azzurri vanno subito sotto e devono giocare in inferiorità numerica nell’ultimo quarto d’ora per il rossoa Gianfranco Zola. A due minuti dalla fine la comitiva sembra già imbarcata sull’aereo di ritorno, sfiancata dal caldo e irrisa dal torello avversario, quando Baggio colpisce di destro una palla che, passando illesa tra diverse gambe, vale l’1-1: rinascita dell’Italia e svolta personale nel torneo (eloquente la radiocronaca di Sandro Ciotti: «E poi il gol di Roberto Baggio. Santo Dio, era ora!»). Nei supplementari inventa un assist di pallonetto che porta al rigore su Antonio Benarrivo, trasformato dal numero 10 nel 2-1 finale. Da lì la rete del 2-1 alla Spagna nei quarti, la doppietta alla Bulgaria per un altro 2-1 in semifinale e la finale persa dal dischetto contro il Brasile. L’Italia è a pezzi nel fisico e nella tenuta atletica, un miracolo finire 0-0 dopo i supplementari. Baggio ha dovuto anche gestire uno stiramento patito con la Bulgaria, manda alto l’ultimo rigore della serie italiana.
Anni belli in azzurro, anni finalmente belli in bianconero: quelli del Divin Codino. Baggio, come accennato, arriva a Torino di malavoglia: alla conferenza stampa di presentazione si rifiuta di indossare la sciarpa della Juventus. Allenatore è Gigi Maifredi, scelto da Luca Cordero di Montezemolo per riproporre in un grande club il calcio-champagne visto a Bologna. I presupposti ci sarebbero tutti, con un attacco guidato dalla coppia protagonista a Italia 90. Il campo dice il contrario: settimo posto in classifica e, per la prima volta in assoluto, mancata qualificazione a una coppa. Il punto più basso della storia bianconera di Baggio si registra sabato 6 aprile 1991. La Juventus gioca a Firenze, il numero 10 non si presenta al dischetto per calciare un rigore. Lo accusano di vigliaccheria, il tecnico si assume la responsabilità: «Ho deciso io, Mareggini sapeva molto bene come Baggio batte». Tocca a Gigi De Agostini, che sbaglia. La Fiorentina vince, Baggio indossa una sciarpa viola che gli gettano dagli spalti: polemiche assortite. L’eresia Maifredi viene curata con la riproposizione della concretezza di Giovanni Trapattoni, che mette il Divin Codino al centro del progetto. La Juventus non vince in Italia, ma in Europa sì.
E c’è la firma di Baggio nella conquista della Coppa Uefa nel 1993: il 6 aprile ribalta a Torino il Psg, doppietta con gol su punizione per il 2-1 al 90′ (e firma anche l’1-0 del ritorno), nella finale di andata a Dortmund perfeziona il 3-1 con altri due gol, dopo l’1-1 dell’altro Baggio, Dino. Non segna nel 3-0 del ritorno a Torino, ma il trofeo lo consacra a livello mondiale. In quell’anno vince il Pallone d’oro (terzo italiano dopo Gianni Rivera nel 1969 e Paolo Rossi nel 1982) e il Fifa World Player, ma la Juventus non decolla in Italia. Nel 1994 si piazza seconda dietro al solito Milan, la società congeda Trapattoni e chiama Marcello Lippi.
L’arrivo del futuro ct campione del mondo apre una finestra sui rapporti tra Baggio e gli allenatori, spesso in difficoltà con un giocatore complicato da gestire tatticamente: troppa qualità per essere ingabbiata in un sistema di gioco o di spogliatoio. Sven Goran Eriksson a Firenze voleva che giocasse sulla fascia, Trapattoni gli chiedeva platealmente di rientrare, per Lippi non era uno pronto a sacrificarsi per il gruppo, idem per Fabio Capello quando Baggio va al Milan nel 1995, dopo aver offerto contro il Dortmund la punizione per la finale di Coppa Uefa (persa con il Parma) e dopo non aver trovato un accordo per il prolungamento del contratto in bianconero. In rossonero vince il secondo scudetto consecutivo (dopo quello con Lippi) ma resiste solo due anni, affondando con il rientrante Sacchi nel 1996-’97. In quell’estate passa al Bologna, dove Renzo Ulivieri – per convinzioni tecniche e politiche – mette il gruppo davanti al singolo. Uno come Baggio, nonostante segni in 30 partite 22 gol che convinceranno Cesare Maldini a convocarlo per il Mondiale 1998, è considerato più un’anomalia che un risorsa. Lo chiama allora l’Inter, dove gode della stima di Gigi Simoni. Ma la stagione nerazzurra è devastante (quattro allenatori differenti) e, quando nel 1999 si presenta Lippi, si sa già come andrà a finire con Baggio. Il regalo d’addio al tecnico, con cui polemizza apertamente, è la doppietta nello spareggio vittorioso con il Parma, necessario per assegnare un posto in Champions League.
Baggio lascia la metropoli per rifugiarsi in provincia. Va a Brescia, dove lo accoglie un allenatore innamorato del talento come Carlo Mazzone. Il tecnico concede quella libertà che altri giudicavano deleteria. Un esempio? Nel 1997 Carlo Ancelotti si oppone all’arrivo di Baggio a Parma perché, come avrebbe raccontato anni dopo, «a inizio carriera in panchina non vedevo i numeri 10 nel 4-4-2». Un pensiero condiviso da Giovanni Agnelli che, alla classe del Divin Codino, preferiva quella di Michel Platini e, successivamente, quella di Alessandro Del Piero, considerati più uomini squadra di Baggio, spesso vittima della sua ironia. «Avete visto la sua faccia? Mi sembra un coniglio bagnato»: così lo timbrò dopo le prime partite poco convincenti a Usa 94, mentre per Platini era «un 9 e mezzo, non un 10». Parole che non toccano Baggio, che a Brescia conosce una personale terza giovinezza, dopo i primi anni bianconeri e dopo Bologna. Con lui i lombardi si divertono, mantengono la Serie A in anticipo e nel 2001 raggiungono un ottavo posto mai conquistato prima (e dopo), con Europa a corredo. Il 1° aprile di quell’anno Baggio segna l’1-1 in casa della Juventus: aggancio con dribbling volante ai danni di Edwin van der Sar, su lancio di Andrea Pirlo. Giusto per capire il rapporto tra Mazzone e il talento, da valorizzare anche nei club che partono per salvarsi. Nella stagione successiva Baggio si illude perfino di poter prendere parte al quarto Mondiale personale: comincia con 8 gol in sette giornate, si procura un paio di distorsioni alle ginocchia fino alla rottura del legamento crociato anteriore sinistro. Operato il 4 febbraio 2002, torna dopo 81 giorni per evitare la retrocessione nelle ultime tre partite con altrettanti gol. Non basta però per convincere Trapattoni, che non lo convoca per la spedizione in Giappone-Corea del Sud, scrivendo l’ultimo capitolo del rapporto conflittuale con gli allenatori.
Baggio si ferma a Brescia fino al 2004. Cala il sipario sul gol (dei 291 segnati in carriera, per non parlare degli assist) alla penultima giornata, con un dribbling secco sul laziale Fernando Couto a un minuto dalla conclusione. Finisce con un successo per 2-1 che significa salvezza. Sette giorni dopo è festa, ancora una volta a San Siro, ancora una volta nel nome di Meazza. Festa doppia perché il Milan celebra lo scudetto e uno stadio intero celebra Roberto Baggio con una standing ovation quando viene sostituito a sei minuti dal 90′. Un’uscita totale, per lui. C’è spazio per una esperienza da presidente del Settore tecnico di Coverciano avviata il 4 agosto 2010. Viene chiamato come patrimonio del calcio italiano, perché dia la sua impronta al Centro tecnico dove si formano tecnici e giocatori. Si dimette il 23 gennaio 2013: «Ho presentato un piano di 900 pagine nel novembre 2011. È rimasto lettera morta, ne traggo le conseguenze». Da quel giorno c’è stato spazio solo per se stesso e per chi gli vuole bene. Senza pallone.
Sandro Bocchio