Eusebio da Silva Ferreira, nato nel 1942 nell’allora colonia lusitana del Mozambico, iniziò a tirar calci a un pallone nelllo Sporting Clube de Lourenço Marques prima di essere portato in Europa dal Benfica nel 1960.
Con le Aquile, inizialmente sotto la guida di Bela Guttmann, Eusebio diventò una leggenda planetaria, aggiudicandosi, fra le altre cose, una Coppa dei Campioni (1961-‘62, con doppietta nel 5-3 nella finale col Real Madrid), di cui fu anche per tre volte capocannoniere (1964-‘65, 1965-‘66, 1967-‘68) il Pallone d’Oro nel 1965 e la Scarpa d’Oro in due occasioni (1968, 1973 con rispettivamente 40 e 42 reti). Dal 1975 portò il proprio talento nelle Americhe, fra Stati Uniti, Messico e Canada con qualche breve parentesi nuovamente in Portogallo, con le maglie di Beira-Mar e União de Tomar.
Dal 1961 al 1973 fu colonna e simbolo del Portogallo, con cui segnò 41 reti in 64 partite (record di marcature battuto solo da Pauleta e Cristiano Ronaldo) e si mise al collo il bronzo ai Mondiali del 1966 in Inghilterra, di cui fu anche miglior realizzatore con 9 reti. “Fu un africano del Mozambico il miglior giocatore di tutta la storia del Portogallo: Eusebio, gambe lunghe, braccia cadenti, sguardo triste”, scrive Eduardo Galeano, perché Eusebio nasce nel 1942 a Lourenco Marques (oggi Maputo) e una delle prime stelle europee dalla pelle nera non può essere che il figlio delle colonie portoghesi, quando la sola idea di liberazione e indipendenza era ancora lontana da venire.
Orfano di padre a soli otto anni, la sua è una storia di povertà e miseria, da cui si cerca di scappare correndo il più veloce possibile, magari con un pallone tra i piedi, tanto che si dice che da adolescente corresse i 100 metri in 11 secondi. La sua fortuna nacque un giorno sulla sedia di un barbiere, dove a un tecnico brasiliano furono narrate le meraviglie di quel ragazzino che faceva impazzire tutti nelle strade polverose di Lourenco Marques, il tecnico era amico di Bela Gutman, allenatore ungherese del Benfica, e da qui il mito si fa storia. Anche il suo arrivo in Portogallo si tinge di meraviglia: pare che il Benfica per nascondere il suo acquisto ai rivali cittadini dello Sporting Lisbona lo abbia tenuto nascosto in un villaggio di pescatori dell’Algarve, e solo dopo lunghi mesi di battaglia legale lo abbia potuto tesserare.
Era l’estate del 1961, nemmeno dodici mesi prima che Eusebio, in una notte ormai leggendaria di Berna, riuscisse a segnare due gol al potentissimo Real Madrid e a soli vent’anni regalò al Benfica la sua seconda Coppa dei Campioni. E passano solo cinque anni prima che il Portogallo si presenti ai Mondiali del 1966, è una squadra multietnica con molti figli delle colonie quella lusitana, ben prima della tanto celebrata Francia campione nel 1998, quando in realtà poi nello spogliatoio dei galletti esplodono tutte le contraddizioni di un paese in cui l’integrazione è ancora da venire. Di quel Portogallo la Pantera Nera Eusebio è il profeta, e la sua figura si sublima nei quarti di finale contro la Corea del Nord, quella che aveva fatto piangere l’Italia con il “falso dentista” Pak Doo-Ik, in cui i lusitani chiudono il primo tempo sotto di tre gol. Nella ripresa Eusebio ne fa quattro. Il Portogallo avanza prima di arrendersi tra le polemiche in semifinale contro i padroni di casa inglesi che dovevano vincere a tutti i costi.
Quei quattro gol non sono un episodio isolato, a fine carriera Eusebio ne conterà 41 in 67 partite con la nazionale e ben 291 in 313 partite di campionato con il Benfica: una media allucinante di 0,93 gol a partita. Pallone d’oro nel 1965, tra le celebrazioni spicca quello di Josè Mourinho. “E’ una delle grandi figure del Portogallo, credo sia immortale – ha detto l’ex allenatore dell’Inter -. Non dico che è stato una fonte d’ispirazione quanto un punto di riferimento importante, non tanto per quello che ha fatto nel calcio ma per i valori, per i principi, per i sentimenti che ha trasmesso anche dopo aver chiuso la carriera. Se Eusebio giocasse oggi, sarebbe tra i più forti”. Come resta immortale nella minima storia del calcio la leggenda del bambino che nacque destinato a fare il lustrascarpe e invece con un pallone tra i piedi regalò gioia e speranza al popolo mozambicano, che quando nel 1975 riuscì a essere indipendente si rivolse a lui come a una delle prime persone da ringraziare.