E se si fosse buttato apposta? L’arbitro Manuel Amaro de Lima ebbe un momento di incertezza. Solo un attimo. Impossibile. Quello era Pelé. Il grande Pelé. L’immenso Pelé. Il loro Pelé. O Rei. Un re non si tuffa, un re viene abbattuto. Allora gettò via i dubbi, mise il fischietto tra le labbra e soffiò. Undici minuti alla fine. Calcio di rigore per il Santos. Quello che la gente aspettava.
Penalti, gridò tre volte il telecronista. Rildo Da Costa Menezes capì immediatamente che stavolta non glielo avrebbero fatto tirare. Manco s’avvicinò. Al Maracanã si misero a cantare. Pelé, Pelé, Pelé. Aspettavano un suo gol. Rio, il Brasile, il mondo. Tutti. Li avevano contati giorno dopo giorno e stavano aspettando il prossimo, il numero mille. Lo aspettava finanche il portiere avversario del Vasco, Edgardo Andrada, un argentino di Rosario: sotto la maglia ne portava un’altra con cui lui stesso celebrava Pelé, anche se fino a poco prima gli aveva parato cinque tiri e una volta s’era salvato grazie alla traversa.
Il cielo minacciava pioggia. Pelé si scrollò dalle gambe un paio di fili d’erba e si rialzò. Tirava lui, non se ne parlava proprio. Non ci fu la solita corsa dei fotografi dietro la porta, erano già tutti lì. O Rei alzò gli occhi e sentì galleggiare il gol nell’aria, era come sospeso, questo è l’effetto che fa un calcio di rigore. L’attesa. Il più dolce e rischioso degli attimi. Illude, consola, tradisce. Muore chi non sa aspettare, si distrugge chi aspetta invano. Pelé né l’uno né l’altro, Pelé neppure pensava. Andrada andò a posargli un braccio sulle spalle e a fare due chiacchiere, come per riconoscenza visto che Pelé lo stava portando nella storia. Uno dei difensori del Vasco andò a fargli i complimenti, ce l’hai fatta, ci siamo, e Pelé sorrise, fece sì con la testa, hai ragione, ci siamo. Ripensò orgoglioso agli altri 999, mentre un avversario picchiettava con i tacchetti sul cerchio di gesso, quasi scavava, per rendere accidentato quello spicchio di terreno. In ogni film del resto c’è un cattivo.
Pelé non se ne curò. Il vantaggio di essere il migliore. Mise il pallone sul cerchio di gesso e partì per il suo viaggio. Fu a quel punto che la storia andò da un’altra parte, infilò una porta girevole e finì in un mondo parallelo. Andrada non si mosse dalla linea e si lanciò, si lanciò dalla parte opposta a quella che aveva sussurrato a Pelé, andò sulla sinistra, distese il braccio, sentì il pallone finirgli sulla mano e poi più niente, solo il silenzio dello stadio gelato.
Andrada aveva fantasticato l’invasione di campo dei fotografi, Pelé che in porta bacia il pallone, la folla che lo prende in braccio come una madonna e costringe l’arbitro a sospendere la partita, i palloncini che volano in cielo. Aveva prima immaginato la festa e poi l’aveva fatta fallire. Quando il Maracanã si fu svuotato, Rildo corse a consolare Pelé.“E adesso?”.
“E adesso cosa”.“E adesso cosa succede?”.
“E adesso ci riproverai. Lo farai alla prossima partita”.“Rildo, ho come una sensazione. Temo che il gol numero mille non lo segnerò mai più”.
Pelé ritentò quattro giorni contro l’Atletico di Minas Gerais. E poi il 29 novembre con gli argentini del Racing, il 2 dicembre con gli uruguayani del Peñarol, il 4 con l’Estudiantes, il 6 con il Velez. Ma niente. Pali, traverse, grandi parate. Giocava ogni due giorni per riuscirci. Più ci provava, più gli sfuggiva. Sommava avversari su avversari, un fiasco dietro l’altro.“È una macumba, sicuro”, disse a Rildo la notte di Capodanno del ’70, passata senza chiudere occhio ma senza neppure sentirsi veramente sveglio. Dieci giorni dopo era di nuovo in campo contro il Coritiba. Inutile anche allora. La macchina della celebrazione di Pelé – i palloncini, i fotografi, il microfono per il discorso – girava con il Santos per i campi del Sudamerica, sempre pronta a essere innescata ma puntualmente smantellata alla fine di ogni partita. I gol erano 999 e 999 restavano.
“Ho una soluzione”, fece Rildo a marzo, quando ormai la cosa era diventata alquanto imbarazzante. “Diremo che i conteggi erano sbagliati e che il gol numero mille lo avevi già segnato contro il Botafogo, nella partita precedente”.
“E la festa?”
“Pazienza. La festa non c’è stata, la festa non ci sarà”.
Solo che del gol numero mille, a Pelé piaceva la festa. Senza, non sapeva cosa farsene. Il Brasile era come in lutto. Edgardo Andrada fu costretto a lasciare il Paese, senza più pace, non c’era posto dove non lo insultassero per aver negato a Pelé la gioia suprema. João Amaõ, il grande poeta di São Jorge a Cremão, nel Natale del ’70, pochi mesi dopo i Mondiali del Messico persi in finale contro l’Italia, scrisse una lamentazione dedicata al dolore che stava vivendo il suo popolo: “Le strade di Rio sono deserte, i persecutori gioiscono, le sue vergini sono afflitte”. Miguel Tristaõ de Melo Guimarães jr., cantautore brasiliano figlio del grande Miguel Tristaõ de Melo Guimarães senior, tenne un concerto in Amazzonia per scacciare il malocchio, con tutti i grandi della musica europea e americana radunati da Tony Renis, e successivamente riuniti in studio per incidere “We are Pelé”. Novecentonovantanovemila copie vendute in tutto il mondo, e quel numero a O Rei parve solo un’altra beffa.
O Rei intanto giocava, ma niente, non si sbloccava. Cochabamba, Bolivar, Atletico Marte, le avversarie che il Santos si sceglieva, diventavano sempre meno pericolose, eppure a metà del 1971 la situazione era sempre uguale.
Fu allora che Pelé decise di fare quel che fece. Convocò la più grande conferenza stampa mai vista fino a quel tempo, giunsero al Maracanã da Oriente e da Occidente, le tv di tutto il mondo si collegarono in diretta, attratte dal misterioso annuncio che il brasiliano prometteva. Quando dagli studi Rai, dove era ospite Silvio Piola, diedero la linea a Italo Moretti, sapemmo che Pelé aveva riunito il mondo perché aveva finalmente deciso di seguire il suggerimento di Rildo, ma a modo suo. Al contrario.
“Siamo qui perché oggi devo rivelarvi che i calcoli sui miei gol erano sbagliati”, disse mentre la folla di inviati si guardava intorno sbigottita. Ci fu una breve interruzione pubblicitaria (un sapone da doccia pubblicizzato da Pelé, una lametta da barba pubblicizzata da Pelé, una catena di supermercati pubblicizzata da Pelé) e poi O Rei riprese. “Dicevo: i calcoli sui miei gol erano sbagliati”. La regia mandò un breve stacco con un filmato in cui Pelé invitava a consumare un certo tipo di biscotti e poi si proseguì. “Il gol numero mille non c’è stato perché i gol precedenti non erano 999, ma meno, molti di meno. Più di me ha segnato il ceco Bican quarant’anni fa, più di me ha segnato l’ungherese Puskás e più di me potrebbe aver segnato anche il nostro Arthur Friedenreich”. Silenzio. Sembrava che il Brasile neppure respirasse. “Eppure non possono essere mille gol a fare di me il più grande di sempre, sempre che un giorno, nel tempo, di me vogliate ancora pensare questo. Non ne ho segnati mille, ma comunque tanti, vi hanno dato un po’ di felicità ed è questo che per me davvero conta. Era un peso che sentivo di dovermi togliere, perdonatemi, spero mi capirete e che continuerete ad amarmi come prima”.
Poi posò il microfono, scese dal palco sponsorizzato da una nota marca di detersivi, e se ne andò nel trambusto generale. Il 23 giugno del ’71, giorno in cui compiva 30 anni e mezzo, Pelé tornò finalmente a segnare, e pazienza se si trattava di un’amichevole contro il Bologna. Qualche entusiasta, in segno di gioia, fece volare in alto un mucchio di palloncini. Un bambino provò a contarli, prima che sparissero dalla sua vista. Impossibile. E quando all’uscita gliene regalarono due, gli parvero tantissimi.
Angelo Carotenuto