Prima della rivoluzione è il titolo di un film di Bernardo Bertoluccci di due anni prima ed è lo slogan più esplicativo per spiegare il mondo nel 1966.
Le giornate degli italiani erano rigidamente scandite tra lavoro, case sempre più comode, orari fissi e consumismo. La guerra era oramai alle spalle, il lavoro c’era quasi per tutti così come il desiderio di riempirsi la pancia e di godere. Le ragazze iniziavano a scoprire la minigonna, la televisione era un lusso che sempre più persone potevano permettersi, la lasagna la domenica era un piacere al quale era dolce non rinunciare. Il mondo diventava più piccolo, le grandi star della musica e dello spettacolo facevano tendenza e tutti iniziavano ad avere accesso a ciò che succedeva nel mondo nonostante internet fosse ancora un miraggio.
Era un’epoca di grandi cambiamenti, usciva in quell’anno il rivoluzionario The sound of silence di Paul Simon e Art Garkfunkel, John Lennon dichiarava che oramai “i Beatles erano più famosi di Gesù Cristo”. Si era in piena guerra fredda, i russi lanciavano Luna 9, primo oggetto meccanico ad atterrare sul suolo lunare, gli Stati Uniti iniziavano a bombardare il Vietnam. Il ’68 era alle porte e maturava una consapevolezza su alcuni temi. Ad inizio anno venne infatti liberata Franca Viola, prima donna a rifiutare il matrimonio riparatore. Era una sorta di belle epoque post moderna, con quell’ottimismo che contraddistingue i periodi prima della rivoluzione. Non c’era ancora l’altra faccia della luna, le contraddizioni, le stragi di stato, la violenza. La droga era ancora un vizio per pochi e non uccideva in maniera così massiccia, la felicità sembrava avesse confini più semplici e terreni.
Come molto spesso accade anche il calcio seguiva l’onda della modernizzazione. A quell’epoca la partita era un rito domenicale a cui nessuno voleva rinunciare e gli stadi erano pieni di famiglie. Tutto il calcio minuto per minuto veniva ascoltato da uomini giovani e meno giovani su gigantesche radioline che accompagnavano le passeggiate domenicali e consentivano di fare un immaginario viaggio per tutta l’Italia nell’attesa di esultare per un gol o disperarsi per una sconfitta. Era il periodo d’oro dell’Inter del mago Helenio Herrera che nella stagione 1965-’66 vinceva l’ultimo scudetto del suo fantastico ciclo e diventava la seconda squadra dopo la Juventus a cucire sulle proprie magliette la stella che simboleggiava i dieci titoli nazionali.
Il 1966 era anche l’anno dei mondiali che si svolgevano per la prima volta in Inghilterra, la patria del calcio e per i leoni di oltremanica la vittoria era una specie di imperativo categorico. Il mondiale fu preceduto dal furto della Coppa Rimet avvenuto durante un’esposizione al pubblico qualche mese prima dell’edizione: gli organizzatori si premunirono di produrne una copia prima del ritrovamento dell’ambito trofeo da parte di un cane, il meticcio Pickles, che la intercettò in un parco pubblico londinese avvolta in un foglio di giornale. L’Italia si presentò a quell’edizione con grande fiducia e ottimismo dopo la mancata qualificazione del 1958 e la disfatta del 1962. In panchina c’era Edmondo Fabbri, allenatore artefice della scalata del Mantova dalla serie D alla serie A nei primi anni sessanta. La scelta di affidare la panchina della nazionale al tecnico di Castel Bolognese era una scelta in contrapposizione con lo stile catenacciaro di Herrera in voga in quel periodo.
Fabbri attuava infatti un gioco più propositivo e spettacolare con l’obiettivo di vincere e divertire. La presenza nella spedizione di alcuni giocatori titolati come Rivera, Mazzola, Facchetti, Bulgarelli e Albertosi faceva si che l’Italia fosse considerata come una delle favorite per la vittoria finale al di sotto solo dei padroni di casa dell’Inghilterra e del Brasile di Pelè e Garrincha. Le amichevoli prima del mondiale avevano rinforzato l’ottimismo con una serie di vittorie convincenti. Il gruppo in cui era stata sorteggiata l’Italia non era certo dei più proibitivi viste le premesse della vigilia. Dall’urna erano infatti uscite Cile, Urss e Corea del Nord, tutte squadre alla portata degli azzurri.
Le avvisaglie della disfatta potevano già essere viste in alcuni aspetti: la federazione scelse un ritiro militaresco in cui i giocatori dormivano in spazi separati, con una rigida suddivisione tra senatori e rincalzi che contribuì a creare una netta spaccatura all’interno del gruppo.
Vi era poi stata la rinuncia da parte di Mario Corso per incomprensioni con l’allenatore e alcuni compagni di squadra, mentre Gigi Riva e Mario Bertini furono aggregati alla spedizione pur senza essere convocati e parteciparono al ritiro senza troppo entusiasmo. Lo stesso Fabbri sembrò fin dall’inizio in balia degli eventi mostrando un certo ostracismo nei confronti dei giocatori dell’Inter a causa della filosofia di gioco agli antipodi. Iniziò poi a patire la pressione e a vedere nemici ovunque. Appena dopo essere sbarcato in Inghilterra dichiarò che l’Italia “Era in guerra” e questo clima da “noi contro tutti” contribuì ad amplificare il dissenso della stampa sportiva nazionale.
Il primo match vide l’Italia contrapposta al Cile e fu una rivincita della battaglia di Santiago del 1962: quattro anni prima gli azzurri vennero sconfitti due a zero dai padroni di casa cileni al termine di una delle partite più violente della storia del calcio. L’Italia chiuse il match in nove uomini con due giocatori che subirono fratture a causa dei pugni dei cileni e Ferrini che uscì dal campo scortato dai Carabinros de Chile. La partita e le reciproche accuse sullo stato di povertà e degrado della capitale cilena e del sud Italia da parte dei media di entrambe le nazioni ebbero delle ripercussioni sui rapporti diplomatici tra le due nazioni. La rivincita in Inghilterra si giocò in un clima decisamente più tranquillo e vide l’Italia prevalere con il risultato di 2-0 grazie alle reti di Mazzola e Barison. La vittoria non fu però accolta con grande entusiasmo e la prestazione della nazionale venne giudicata al di sotto delle aspettative.
Tre giorni dopo gli azzurri affrontarono l’Urss del gigante Lev Jascin, probabilmente il più grande portiere della storia. Contro un avversario più forte dei cileni Fabbri rinnegò la propria filosofia di gioco scegliendo di attendere gli avversari e i giocatori scesero in campo con una mal celata paura. Il gol di Cislenko al 57’ e la mancata reazione rappresentarono il fallimento del progetto tattico del tecnico bolognese. A quel punto però nulla era perduto perché per qualificarsi ai quarti di finale all’Italia bastava un pareggio contro la Corea del Nord, considerata la squadra materasso del girone.
I giocatori della rappresentativa asiatica erano tutti dilettanti, in pieno stile socialista. La presenza della nazionale coreana ai mondiali era considerata un fastidio soprattutto per la recente guerra che aveva provocato la suddivisione in Corea del Nord filo sovietica e Corea del Sud appoggiata dagli americani. Per paura di incidenti diplomatici con la Corea del Sud, il comitato organizzatore del mondiale vietò l’esecuzione degli inni nazionali prima di ogni incontro. Il match con la nazionale di Pyongyang era visto come poco più di una formalità tanto che l’osservatore e futuro tecnico della nazionale Ferruccio Valcareggi definì gli avversari dell’Italia dei “ridolini” dopo aver supervisionato una loro prestazione. Il 19 luglio 1966 a Middlesborough il pubblico inglese era tutto per i coreani, secondo quell’antico principio che fa si che la tifoseria neutrale simpatizzi per la squadra più debole. Fabbri stravolse completamente la formazione, cambiando per sette undicesimi la squadra che aveva perso con l’Urss. L’allenatore bolognese non rinunciò però al suo pupillo Bulgarelli nonostante avesse accusato alcuni problemi fisici nei giorni precedenti al match.
Fin dalle prime battute i “ridolini” si rivelarono una sorpresa andando a velocità doppia rispetto agli italiani e arrivando spesso a quadruplicare i giocatori in possesso di palla. Nonostante questo la qualità dell’Italia sembrò avere la meglio: a inizio match gli azzurri ebbero diverse occasioni con Marino Perani che però fallì sia per errori di mira che per la bravura del portiere Lee Chang-Myung. Al 35’ avvenne ciò che poteva essere preventivato: il ginocchio di Bulgarelli fece definitivamente crack. Ai tempi non erano ammesse sostituzioni e quindi gli azzurri furono costretti a giocare il resto della partita con un uomo in meno. Ciò che invece non era preventivabile nemmeno negli incubi più neri fu quanto avvenne al 42’: Mazzola controllò male un rinvio di Albertosi e perse il pallone che arrivò sui piedi di Pak Doo-Ik, centrocampista con la qualifica di dentista e caporale dell’esercito. Il centrocampista coreano fece partire un tiro dal limite dell’area diretto verso la porta azzurra. Albertosi si allungò più che potè e sembrò poter raggiungere il pallone ma la traiettoria fu inesorabile, sfiorò le dita dell’allora portiere della Fiorentina e terminò in fondo alla rete. I coreani impazzirono di gioia, così come il pubblico neutrale inglese. I “banfoni” italiani stavano perdendo contro una squadra di semi professionisti e stavano dicendo addio al mondiale.
Sugli spalti vi fu un misto di gioia, crudeltà e frustrazione: Gigi Riva, che assisteva al match dalla tribuna, raccontò di essere stato preso a ombrellate da un italiano residente in Inghilterra come se dovesse in qualche modo espiare una colpa. Il prosieguo del match fu una rielaborazione post traumatica con i giocatori italiani che in completo stato di shock non si resero mai pericolosi dalle parti di Lee Chang-Myung. Negli spogliatoi vennero fuori tutte le magagne in un’inutile quanto incresciosa lotta alla discolpa. Lo stesso Fabbri non si dimostrò propriamente uomo tutto di un pezzo e chiese di poter ritornare in Italia di soppiatto ma la federazione glielo impedì. Come spesso accade dopo i pesanti capitomboli ognuno fu libero di ricercare la propria salvezza facendo i conti con la propria etica e la propria storia. La federazione scelse infatti di “sciogliere la comitiva” ma nonostante questo al rientro i giocatori vennero accolti con pomodori e ortaggi vari da circa mille tifosi. La stampa si scatenò, e il termine Corea diventò sinonimo di Caporetto in ambito sportivo. Si era però poco prima di una pseudo rivoluzione e le rivoluzioni quando nascono sono spesso portatrici di una gigantesca psicosi collettiva che non lascia addito a perdono. Fabbri sbagliò molte cose e sentì nominare il nome Corea migliaia di volte fino alla sua morte, avvenuta nel 1995. Se molti giocatori ebbero poi l’occasione di riscattarsi e di entrare nella memoria collettiva per imprese ben più idilliache, per lui la gogna mediatica non ebbe mai fine e pagò fino in fondo la propria boria. Ma d’altronde le rivoluzioni, anche quando sono simboliche o quando poi alla fine non avvengono, hanno sempre qualche vittima sacrificale.
Dopo il ’68 il mondo non sarà più lo stesso, nel bene e nel male ma la maggior parte dei sogni dei rivoluzionari di quell’epoca verranno strozzati dall’amara e cruda realtà. Anche il calcio, dopo la Corea, cambierà in meglio e in peggio. Se negli anni sessanta portare un bimbo alla partita era una festa ora lo stadio è uno degli ambienti più diseducativi che ci siano e canalizza le frustrazioni di tante persone. L’accoglienza agli azzurri dopo la sconfitta con la Corea fu purtroppo una rivoluzione anche per quello, fu uno dei momenti cruciali in cui il calcio smise di essere un gioco per diventare esasperazione. Forse perché il benessere contrassegnava le vite degli italiani e non c’erano cose più importanti di cui preoccuparsi. Forse anche perché qualcuno con cui prendersela serve sempre, specie se fa di tutto per rendersi indifendibile. Edmondo Fabbri è stato l’uomo perfetto da mettere alla gogna di fronte ad un mondo troppo più grande di lui che stava sempre meglio ma che forse stava iniziando a cambiare in peggio.
Resta però la tendenza degli italiani a disunirsi nel momento in cui le cose vanno male e a cercare ognuno di salvarsi a proprio modo senza alcun tipo di spirito comunitario: Giovanni Arpino ha raccontato con mirabile spirito critico la disfatta degli azzurri al Campionato del mondo del 1974 in Azzurro tenebra. Dopo la mancata partecipazione agli ultimi mondiali si è scatenata un’ossessiva ricerca del colpevole che ha colpito soprattutto il commissario tecnico Giampiero Ventura. Scarsa capacità di mettersi in discussione nell’insieme che provoca un ciclico ripetersi di situazioni già vissute. Cose già viste che non vengono scalfite nemmeno dai tempi che cambiano e dalle rivoluzioni.. vere o ipotetiche che siano.
Valerio Zoppellaro