Agosto 2011. Squilla il cellulare, è il mio amico Alfredo Regueira. So che in questo momento è in Uruguay, il suo paese, a caccia di nuovi talenti da portare in Europa. Mai avrei immaginato che sarebbe stato in grado di suscitare in me un’emozione tale da commuovermi e da farmi lì per lì rimanere senza parole. “Mario, ti passo una persona che vuole parlare con te”. Pronto! Con chi parlo? Dall’altro capo del mondo una voce anziana ma ferma, che non tradisce una buona conoscenza della lingua italiana. “Piacere, sono Ghiggia”.
Abituato a confrontarmi con chiunque, dalla politica allo sport, questa volta, come detto, le parole mi si soffocano in gola. Insieme ad Alfredo Di Stefano, Pelè e Maradona, l’asso uruguaiano è uno dei quattro veri scrittori della storia mondiale del calcio. In grado, da solo, di determinare quell’impresa destinata a rimanere tale per sempre.
Coloro che, come me, sono nati dal 1950 in poi sono cresciuti sapendo che c’è stato un lontano 16 luglio in cui l’Uruguay mise a tacere il colosso Maracanã, pieno di 200 mila anime brasiliane, che speravano di vincere il campionato del mondo in casa loro. Sarebbe bastato un pareggio. Passarono gli anni e crebbero il mito, la leggenda, il dubbio e anche la diffamazione: Obdulio Varela con la palla sotto il braccio e Alcides Edgardo Ghiggia, l’autore del gol decisivo, ma anche il disumano giudizio: Barbosa, il portiere verdeoro, avrebbe dovuto morire dopo la grande umiliazione. Nel 1950 Ghiggia era un membro della cosiddetta “macchina del 49” del Peñarol composta da Hohberg, Miguez, Ghiggia, Schiaffino e Vidal; più di uno ci ha insegnato a elencarli in questo modo, come un verso. Erano la base del successo uruguagio del 1950, e Schiaffino, con il suo portamento eretto, il suo talento e la sua esperienza era la grande figura.
Ghiggia lo seguiva, ma era veloce come nessuno, audace come pochi, e fu toccato dalla bacchetta magica del destino. È entrato nella migliore storia del calcio mondiale con un risultato mitico che anno dopo anno, ogni 16 luglio, possiamo vedere ancora e ancora osannato dal popolo dell’Uruguay. Ma il 16 luglio 2015 è stato tremendamente diverso. Da un lato veniva ricordato come ogni anno l’atto del Maracanã ma dall’altro, quando calò la sera, giunse la notizia della morte di Ghiggia. Proprio il 16 luglio, sessantacinque anni dopo il suo più grande momento di gloria. Ghiggia ha vissuto una vita piena di riconoscimenti e di amore. Alla fine ha aggiunto un altro ingrediente alla sua leggenda, trasformandosi come direbbe il grande Alfredo Zitarrosa nella sua Chitarra nera in “un romanzo scritto da un pazzo”.
Alcides Ghiggia ha seguito la stessa traiettoria di Schiaffino. È venuto in Italia, ha giocato per il Milan, per la Roma e anche qualche partita nella nazionale italiana. Avrebbe persino segnato un gol, nel ’58 a Belfast. Era una partita delle eliminatorie per i mondiali in Svezia, cui non andremo mai. Ma quel gol gli è stato derubricato perchè, causa omerico nebbione, l’aeroporto di Belfast quella notte era chiuso, e l’arbitro designato non arrivò mai. Arbitrò un irlandese, e quella fu una volgare amichevole. Alla partita assistette il giovane George Best: mai avrebbe immaginato che anni dopo, quello stesso aeroporto, gli sarebbe stato intitolato alla memoria.
Ghiggia (nella foto a fianco insieme a Schiaffino, nella nazionale italiana) è tornato varie volte in Brasile, e ogni volta i doganieri gli hanno scartabellato il passaporto e gli hanno detto: “Ma lei, è QUEL Ghiggia?”
“Sì señor“.
Pam.
“Bentornato in Brasile”.
Una volta però la faccenda si complicò, e anche parecchio. Uno di questi doganieri gli puntò un dito in faccia e gli disse: “Lei, lei ha ucciso mio padre”.
“No señor, yo no matei a nadie“. “No signore, non ho ucciso nessuno”.
“Sì, mio padre è morto d’infarto dieci minuti dopo il suo gol”.
Una empasse emozionale insuperabile. Poi però il brasiliano gli buttò le braccia al collo e i due piansero assieme per 10 minuti.
(da “Storie Mondiali” di Federico Buffa e Carlo Pizzigoni, Ed. Sperling & Kupfer)
Ma c’era un’altro, il suo capitano, che trascese i limiti della palla per diventare anche lui un eroe della cultura uruguaiana, il grande Obdulio Varela.
La storia ci dice che la coppa è stata consegnata nel tunnel degli spogliatoi e la leggenda che Varela stesso condivise la tristezza che lui e i suoi compagni avevano generato in Brasile con una serie di drink nei bar di Rio de Janeiro. Obdulio è stato il “Capo Nero” non solo per il suo artiglio in campo, ma per la sua personalità al di fuori. Nel 1945, il suo Peñarol battè il River Plate e i dirigenti premiarono ogni giocatore con 250 pesos, mentre a lui ne volevano dare 500 perché era il capitano. “Ho giocato come tutti gli altri, se pensate che meriti 500 pesos, è 500 per tutti. Se ne meritiamo 250, anch’io devo averne 250”, disse Varela. E 500 pesos erano una piccola fortuna per il tempo. Il premio assegnato dalla Federcalcio uruguaiana per la vittoria in Brasile fu sufficiente per acquistare un’auto che gli fu rubata una settimana dopo.
Da allora l’Uruguay non ha più vinto un mondiale e la figura di Varela è diventata sempre più epica. Ma allo stesso tempo la sopraggiunta modernità del calcio lo ha condannato all’oblio. Sì, proprio all’ oblio, se ti viene negato l’ingresso in uno stadio uruguaiano per vedere una partita perché non hai i soldi per pagare l’ingresso … Sì, al “Capo Nero” che ha scritto la pagina più gloriosa del popolo charrúa, è successo proprio questo.
A ben vedere, tutto il Brasile dovrebbe ringraziare quel “Maracanazo”. No, non stiamo straparlando. Una volta il grande Pelè raccontò che la prima volta che vide piangere suo padre fu quando entrambi ascoltarono alla radio proprio la sconfitta con l’Uruguay del ’50. Il ragazzo, che in seguito sarebbe diventato il miglior giocatore del mondo, promise a suo padre che un giorno avrebbe vinto il mondiale per renderlo felice. L’ha fatto tre volte, ma questa è un’altra storia.
Mario Bocchio