L’estate in cui le notti erano magiche, a volte anche i pomeriggi potevano regalare sogni. Proprio mentre l’Italia si apprestava a diventare il centro del mondo con l’inizio dei “suoi” Mondiali, anche la città di Oristano e un gruppo di baldi calciatori sardi trovarono il loro momento di gloria. Il 5 giugno 1990, a tre giorni dal match inaugurale di Italia ’90, sull’erbetta del campo Tharros si svolse una delle partite più insolite e affascinanti che il pallone isolano abbia mai raccontato. Ce la racconta Andrea Sini su “La Nuova Sardegna”. Con in campo Beardsley, Butcher e Platt, ma anche Zola, Marroccu, Tolu ed Ennas. I Tre leoni contro i Quattro mori, una delle migliori nazionali del mondo contro la meglio gioventù del calcio isolano di quel periodo. Un “massacro” annunciato, almeno a livello sportivo, anche perché la selezione sarda era stata messa su in quattro e quattr’otto e comprendeva per lo più elementi che militavano nel campionato Interregionale. E con appena 5-6 professionisti, affidati a Mariano Dessì, decano degli allenatori sardi. Il 10-2 finale dice tutto sul divario tra le due squadre ma non spiega nulla delle emozioni che, a quasi trentun’anni di distanza, sono ancora ben vive nel cuore e nella mente dei protagonisti.
La nazionale inglese ha base in Sardegna da una decina di giorni: le sue gare della prima fase si svolgeranno al Sant’Elia e la squadra guidata da Bobby Robson ha due necessità: fare rodaggio e, in piena fobia da hooligans, accreditarsi nel migliore dei modi con il pubblico isolano. A tessere le trame c’è Stefano Arrica, figlio dello storico presidente cagliaritano Andrea, che ha assunto il ruolo di capo delegazione dell’Inghilterra. «Pochi giorni prima – racconta – sul campo di Pula ci fu un’amichevole a porte chiuse con il Cagliari di Ranieri, appena promosso in serie A. E le due squadre se le diedero di santa ragione. Poi Robson mi chiese di potere affrontare una selezione locale. E così io e Virgilio Perra ci mettemmo al lavoro». L’idea iniziale, come riportato dalle cronache del tempo, è quella di giocare un’amichevole contro la Torres all’Acquedotto.
Poi, per evitare il rischio che i temuti hooligans se ne stiano troppo in giro per la Sardegna, si fa rotta su una meta più vicina: Oristano. Il fischio d’inizio è fissato per le ore 15. Il treno che attraversa questo piccolo ma significativo tratto di storia del calcio sardo ha due tariffe: per assistere allo spettacolo dalla tribuna basta tirare fuori una banconota da diecimila lire, con il ricavato che verrà devoluto in beneficenza. Alla Croce rossa locale e all’istituto “Pittau” per il recupero dei tossicodipendenti toccheranno complessivamente 10 milioni di lire. Per essere protagonisti sull’erbetta del campo Tharros, invece, è sufficiente avere la consapevolezza che non ci sarà partita. Un po’ per l’enorme disparità tra le due squadre, un po’ perché Robson, attraverso Arrica, si è raccomandato con gli avversari: «Andateci piano». «Ma in realtà a picchiare come fabbri erano proprio gli inglesi», sorride il capo-delegazione. «Eccome se picchiavano – conferma Francesco Marroccu, attuale direttore sportivo del Genoa, al tempo mediano dell’Iglesias –, ma la verità è che dal punto di vista fisico c’era un abisso. Vedere quei fisici statuari era in un certo senso bellissimo e impressionante».
ìL’Inghilterra, in maglia rossa, pochi giorni prima ha fatto un blitz in Tunisia per un’altra amichevole e tiene a riposo alcuni dei suoi big. Dall’altra parte, la selezione sarda è riuscita in extremis a tirare dentro l’unico giocatore di serie A: Gianfranco Zola, dopo il triennio magico con la Torres, ha appena vinto da debuttante lo scudetto con il Napoli. Per vederlo giocare, sono arrivati da Oliena anche i suoi genitori, che ora in tribuna incassano complimenti e strette di mano a raffica. All’inizio della sua epopea in terra britannica mancano ancora sei anni più tardi, ma è qui – di fatto – che il calcio inglese scopre il futuro Magic Box. «Zola era l’unico tra noi a poter dire la sua a quel livello – dice ancora Marroccu –. Il nostro schema era semplice: palla a Gianfranco e cerchiamo di non subire 50 gol. Perché fu davvero un assedio». Al centro della difesa britannica c’è il gigantesco Terry Butcher, del quale verrà tramandata ai posteri una foto leggendaria con la maglia bianca della nazionale completamente ricoperta di sangue al termine di una gara con la Svezia. «Mai visto in tutta la mia carriera un giocatore di quella stazza – ricorda Roberto Ennas, oristanese, che aveva appena terminato la sua prima stagione con il Tempio –. A un certo punto lo puntai in velocità sulla fascia e riuscii a batterlo sullo scatto. Mi rimontò in un secondo e mi fece un’entrata in scivolata pulitissima, ma talmente potente che il pallone andò a sbattere contro la recinzione e rimbalzò in aria arrivando sino a centrocampo. Impressionante». «Maestoso, spaventoso», gli fa eco Marroccu.
A bordo campo, intanto, prima e durante la partita, Paul Gascoigne fa il Paul Gascoigne. «Robson lo tenne a riposo e lui regalò al pubblico della tribuna 90 minuti di show», ricorda Walter Tolu, capitano della Torres che due giorni prima aveva conquistato la salvezza in C1. «Stava in panchina e tutte le volte che gli passavo davanti mi gridava “Rambo-Rambo”, sicuramente per i miei capelli lunghi e ricci – sorride l’ala sassarese –. Ma la cosa ancor più divertente fu un’altra: qualche anno dopo, quando giocavo nella Fidelis Andria, me lo ritrovai davanti prima di una partita di coppa Italia contro la Lazio. Nel corridoio degli spogliatoi mi riconobbe e si mise a gridarmene di tutti i colori: i miei compagni erano allibiti, io ero piegato in due per le risate». «Io di Gascoigne ricordo invece che passò tutto il tempo a succhiare dei lecca-lecca – dice Francesco Marroccu – e la cosa mi lasciò basito: e dire che persino noi giocatori dilettanti avevamo un regime alimentare abbastanza controllato. Ma lui era Gazza…».
A fine gara, l’attesissimo momento della caccia ai cimeli. Marroccu punta il “suo” uomo. «Dopo averlo rincorso inutilmente per 90 minuti di partita, al fischio finale riuscii finalmente a raggiungere Trevor Steven e mi feci dare la sua maglia». «Io durante l’intervallo “prenotai” la maglia di Bryan Robson, leggenda del Manchester Uniterd che portava il 7 come me – ricorda Walter Tolu –. Poi a fine partita, in mezzo alla confusione, lo persi di vista e me ne feci una ragione. Invece quando entrai negli spogliatoi lo trovai sulla porta, sorridente, che mi aspettava con la sua maglia tra le mani. Un gesto da vero gentleman, che non ho mai dimenticato».