«Jean Pierre, vous étes un grand homme, ce genre de création que Dieu ne fait plus ou du moins en fait ailleurs qu’au Cameroun».
Mi ero appuntato sul taccuino questa vibrante dichiarazione d’amore, trascrivendola dal muro dì un bar di Ngousso, quartiere periferico a nord est di Yaoundé, nel corso del mio viaggio in Camerun nel 2012. La mano di vernice rossa aveva perso negli anni la brillantezza, ma l’affetto dei tifosi è rimasto intatto e non teme la concorrenza di Roger Milla o Samuel Eto’o.
Chi si aspettava che la lista di epiteti panegirici venisse dedicata ai due attaccanti che abbracciano dagli antipodi la storia dei Leoni Indomabili rimarrà deluso, perché in Camerun c’è solo un eroe del pallone che mette tutti d’accordo e che appartiene strettamente a una squadra, fino a diventarne l’icona incrollabile, Jean Pierre Tokoto. Samuel Eto’o, nell’immaginario collettivo del popolo camerunense, è il figlio delle promotion multinazionali, quelle capaci di pagare il prezzo dell’eterna sostanza dei miti.
Potrebbero addirittura dubitarne dell’esistenza e arrivare alla conclusione che si tratti di un giocatore virtuale creato dalla Fifa. Tokoto no, ha svegliato le coscienze sportive e sociali del Camerun fin dai tempi di Spagna 82, nel primo appuntamento con l’iride per gli Indomables. Jean Pierre ha 73 anni, il capello crespo grigio a prova di calvizie come da dna di Madre Africa. Ha lo stesso baffo da tricheco che si è portato appresso in anni di fulgida carriera a Marsiglia, Psg, Bordeaux e tra i giganti d’America (Cruyff e Beckenbauer su tutti) a Boston.
«Mi considero un romantico innamorato del pallone – racconta – ho guadagnato bene nella mia esistenza da calciatore. Oggi ricambio, insegnando calcio ai ragazzini disagiati». Al pomeriggio di Vigo del 1982 Tokoto ci arrivò quasi per caso. «Il commissario tecnico Jean Vincent mi convocò in Spagna solo perché giocavo all’estero, ma non mi conosceva neppure. All’epoca vestivo la casacca dei New England Tea Men, nel campionato indoor degli Stati Uniti. Non volevano concedermi il permesso di andare in Spagna, e lei sa che cosa ho fatto? Mi sono licenziato. Il mio Paese veniva e viene prima di tutto. Non c’è denaro che tenga. E dire che all’epoca guadagnavo 100mila dollari a stagione».
In realtà Vincent lo chiamò perché convinto che a 35 anni Tokoto potesse rappresentare il valore aggiunto, l’uomo dell’ultimo quarto d’ora. Un Santillana in salsa colored. «Poi arrivò quella telefonata di Just Fontaine. Sì, proprio lui. Disse al suo amico Vincent di mandarmi in campo dall’inizio contro l’Italia. Sapete tutti come andò a finire. Pareggiamo una gara senza trucchi e senza inganni nonostante i tanti veleni e i fiumi d’inchiostro. Ma quale viale del tramonto? Chiedete a Gentile quanto dovette sudare per limitare i danni».
La nazionale è il suo chiodo fisso, la seconda pelle di un eroe di Madre Africa. «Mi piacerebbe portare il mio personale contributo. Purtroppo in Camerun stravedono, da sempre, per gli allenatori stranieri. N’Kono è stato fatto fuori dopo poche settimane, avrebbe meritato una nuova chance. I calciatori del mio paese non hanno nulla da invidiare ai brasiliani, purtroppo la corruzione sta distruggendo qualsiasi progetto». Per la cronaca quella contro gli azzurri di Bearzot, parenti acerbi dei miracolati del Sarrià, fu l’ultima partita ufficiale disputata da Tokoto.
«In effetti è andata proprio così. Ho festeggiato il mio addio al calcio contro l’Italia. Al ritorno negli Stati Uniti mia moglie mi ha detto di contattare il mio agente perché la squadra di Philadelphia, in cui avrei dovuto giocare, aveva presentato istanza di fallimento. C’era anche una trattativa avviata con i Cosmos di New York, ma ho pensato di ritirarmi e iniziare la carriera di allenatore qui negli States». Dove vive ancora oggi (a Buffalo Grove, nell’Illinois), e dove sorride quando gli viene letta, in un francese dalla pronuncia maccheronica, quella frase, ormai sbiadita, apparsa sui muri di un bar periferico e dimesso di Yaoundé.
Luigi Guelpa