Non mi piace considerare il balonpié come un lavoro. Se lo facessi mancherei di rispetto a me stesso. Soprattutto mancherei di rispetto a chi lavora per davvero, a chi si alza prima del sorgere del sole, a chi si spezza la schiena. Io gioco solo per divertirmi. Che cazzo, altrimenti dove sarebbe il divertimento? Mica ci si diverte lavorando! Sono nato a San Salvador, la capitale di un piccolo staterello del Centro America nel millenovecentocinquantotto. El Salvador era uno dei paesi politicamente più instabili dell’America Centrale. Certo non l’unico a quei tempi. Però era davvero incasinato.
Il giorno tredici di Marzo mia madre Victoria Barillas urla a mio padre, Óscar González: “È un maschio! È l’ottavo! Direi che può bastare!” Eccomi, Jorge Alberto González Barillas, ottavo figlio di una famiglia poverissima! Se i miei avessero avuto un televisore in casa io e qualcuno dei miei fratelli non saremmo nati. Ah, se non ci fossero i poveri a mettere figli al mondo come farebbero i ricchi?
Da buon povero ho iniziato da subito a giocare con un ammasso di stracci e carta per le via polverose del barrio. La chiamavamo palla, ma era piena di spigoli. È così che si affina la tecnica, credete a me.
Hanno provato a mandarmi a scuola, e io da bravo bimbo ho iniziato pure ad andarci. Ma, sapete com’è. Alla fine non ci andavo quasi mai, non è che lo studio mi interessasse più di tanto. Anzi ad essere onesti proprio per niente. Il professore di matematica, se ero presente in aula, prima di iniziare la lezione mi faceva uscire. Non voleva che restassi in classe. Avrebbero potuto cacciarmi, ma al signor direttore interessava soprattutto che la squadra di calcio della scuola vincesse, e senza di me quelli non andavano da nessuna parte!
Si, si. Ho un fisico da tossico. Ho pure un viso da indio. Sono proprio brutto e sporco. Nessuno avrebbe scommesso un centavos che fosse uno su di me. Non posso dargli torto. Però, ho sempre avuto una passione sfrenata per il pallone, un amore indescrivibile. Poi negli anni della scuola ho potuto ulteriormente migliorare il mio bagaglio tecnico: tunnel, rabone, dribbling stretti e giocate di fino. Mettiamoci che ho pure un ottima visione di gioco, e sono velocissimo. È così che sono diventato uno dei giovani calciatori Salvadoregni più interessanti del panorama nazionale. Malgrado quel fisico segaligno da strafatto! Malgrado quella faccia da indio! Poi a me non mi ha mai dato fastidio essere chiamato indio! D’altronde la bruttezza dell’indio è l’essenza stessa della sua bellezza. Il brutto che piace!
Nel millenovecentosettantacinque inizia la mia carriera professionistica, a diciassette anni, con l’ANTEL, l’Administración Nacional de Telecomunicaciones. Inizio a giocare per la squadra di calcio delle telecomunicazioni di El Salvador. Oggi la mia prima squadra di calcio non esiste nemmeno più! Ed è da qui che inizia il mito del mago. Dopo una partita contro il Club Deportivo Águila, che vinciamo per tre a uno, il commentatore sportivo Rosalío Hernández Colorado non aveva più parole. Le parole le aveva finite. Così, per descrivere quello che facevo in campo, ad un certo punto se ne uscì con la storia della magia. “Quello che fa con il pallone fra i piedi questo ragazzino lo può fare solo un mago” disse. Il mago ero io!
Il soprannome Mágico mi piace da morire. Mi fa letteralmente impazzire. Perché in un’unica parola racchiude non solo quello che ero, e sono, ma anche quello che è il balonpié nella sua essenza più intima. E guardate che io e il calcio siamo una cosa sola. Siamo magia. Però ad essere completamente sinceri, un po’ mi ha condizionato. Quando la gente mi chiama in questo modo, Mágico, si aspetta sempre qualcosa di incredibile e speciale. Come si possono deludere persone che ripongono così tanta fiducia in te? Non si può! Per questo motivo sono Mágico. Anche il mio amico Diego, dico, Diego Armando Maradona va raccontando che io sono il calciatore più forte che abbia visto, che sono Mágico.
Io a quell’Argentino gli voglio un sacco di bene, cazzo è un amico, però el Pelusa ha detto pure che il fratello Hugo era più forte di lui, e lo sappiamo che Hugo Maradona e il calcio erano due cose che non andavano troppo d’accordo.Comunque sto divagando. Nel millenovecentosettantasette passo al Club Deportivo FAS de Santa Ana e, sarà un caso o cosa, in due anni con i tigrillos conquisto due titoli nazionali e la Coppa dei Campioni della CONCACAF.
A quel punto le mie prestazioni non passano inosservate nemmeno per il tecnico della Nazionale, e così, nel millenovecentosettantanove arriva anche la prima delle quarantotto convocazioni totali per la Selección Cuscatleca, condite giusto da quarantuno reti. Proprio con quelle reti ho trascinato la Nazionale alla storica qualificazione per il Mundial Spagnolo, quello dell’Ottantadue. Ora so perfettamente quello che i più stanno pensando: il dieci a uno contro l’Ungheria a quei Campionati del Mondo! Vero. Verissimo. Devo dire che i miei compagni non furono proprio all’altezza di quella manifestazione, ma io, el Mágico, invece ho incantato tutti! Abbiamo perso pure per uno a zero contro il Belgio e per due a zero contro l’Argentina. Un totale di tredici reti subite e una sola segnata. Ultimi assoluti. Un disastro. La mia magia però è stata più forte delle sconfitte e dell’umiliazione, infatti, alla fine del Mundial sono stato inserito nella squadra ideale del torneo!
A questo punto piovono richieste da tutt’Europa, tutti o quasi vogliono accaparrarsi la magia. Il Paris Saint Germain aveva già il contratto pronto ma poi non sono andato all’appuntamento ed è saltato tutto. Avevo ben altro da fare che andare a Parigi. In Spagna il Real Madrid, il Barcellona, e tutte le altre grandi. Alla fine ho scelto il Cádiz Club de Fútbol, il matagigantes. Una piccola squadra dell’Andalusia, allora in Segunda División, con poche ambizioni quest’è vero, ma la città era fantastica. Potevo fare tutto quello che volevo. Dopo i primi allenamenti e soprattutto dopo le prime apparizioni casalinghe all’Estadio Ramón de Carranza ero l’idolo indiscusso della città. A Cadice mi perdonano tutto: le notti brave, i ritardi, le assenze ai ritiri. Tutto.Poi mi è sempre piaciuta la vita notturna, ballare e ubriacarmi fino allo sfinimento. Le donne, quanto mi piacciono. Ho un sacco di figli sparsi qua e là!
E poi, alla fine di tutto, dormire! Sono un dormiglione da competizione! Quando se ne sono accorti quelli del Cadice hanno dovuto assumere uno che mi venisse a svegliare la mattina! Soprattutto al secondo anno, quando centrammo la promozione in Primera División! All’inizio avevano pensato di mandare Pepe Meijas, mio compagno di squadra a prendermi, ma non riusciva svegliarmi quasi mai. “Una volta era così ubriaco che l’ho preso per i piedi e l’ho buttato giù dal letto. Niente. Continuava a dormire!” Così finiva che ad arrivare tardi non ero più solo io ma eravamo in due! Se pensate che stia esagerando avreste dovuto vedere quando per svegliarmi hanno chiamato la banda musicale. Alla fine mi sono alzato, mi sono affacciato alla finestra, c’era un sacco di gente oltre alla banda che suonava, tutti hanno iniziato ad applaudire. “Sia chiaro, mi sono svegliato solo perché la musica era buona!” Certo, sennò col cazzo che mi alzavo!
Il problema vero era che gli allenamenti si tenevano al mattino e questa cosa non si conciliava troppo bene con il mio amore sfrenato per la vita notturna. Durante una partita contro l’Atletico Madrid, ovviamente ero in ritardo, ed ovviamente ero ubriaco, hanno pensato di rimettermi in sesto con qualche massaggio per cercare di mandarmi in campo, invece come mi sono steso sul lettino mi sono addormentato. Un’altra volta, sempre nelle stesse condizioni, nell’attesa che venisse battuto un calcio d’angolo, mi addormentai appoggiato alla schiena di un mio compagno. Non ci potevo fare nulla. Però quando ci riuscivo deliziavo tutti con la magia. “Non ho mai visto un giocatore con tanta qualità tecnica! Un giorno ha iniziato a palleggiare con un pacchetto di sigarette. Un pacchetto di sigarette non è un’arancia, è un rettangolo, e lui lì tranquillo a palleggiare! Cazzo il buon Dio gli ha infuso nei piedi la stessa sensibilità che gli artisti hanno nelle mani!” Sempre questo racconta il mio allenatore di allora David Vidal.
Allo stadio venivano tutti per vedere la mia culebra machetiada! Oggi la chiamano “elastico” e tutti pensano l’abbia inventata quel Ronaldinho. Non capiscono un cazzo. Intanto la maggior parte dei calciatori riesce a farla da fermo, io invece la facevo a tutta velocità. “Ma come hai fatto? Come cazzo ci sei riuscito?” Il mio amico Diego questo chiedeva: “Ho provato a fare la stessa cosa e non ci sono riuscito! Si possono fare magie con i piedi, e l’unico a poterle fare si chiama Mágico Gonzalez!” Avete capito! Ronaldinho non era nemmeno nato quando facevo certe cose.
Stranamente quello che mi consegna alla storia è un torneo estivo, il Torneo de Carranza. Si giocava in una bella notte andalusa contro il Barça. Ma cazzo la notte è fatta per vivere, per divertirsi. Io non mi sono presentato mica al campo. Però sono venuti a cercarmi e alla fine non solo mi hanno scovato, ma sono pure dovuto andare a giocare. La mia squadra perdeva per uno a zero e il primo tempo era già finito. Il presidente era livido di rabbia, non riusciva nemmeno ad insultarmi, pensavo sarebbe morto. Gioco il secondo tempo, il tempo di segnare la rete del pareggio con una perla d’antologia. Parto palla al piede dalla mia trequarti, scarto il primo giocatore, poi il secondo, poi il terzo, in fine il portiere e deposito la palla in rete con un gentile rasoterra. Signore e signori, la magia è questione di un attimo. Cazzo, mica ci vogliono novanta minuti!
Dopo quel casino quante volte mi sono sentito dire: “Mágico lo sai che non posso farti giocare!” “Sì, sì, lo so” Certo che lo sapevo, non andavo agli allenamenti! Facevo il cazzo che volevo e mi andava bene così! Gioco quando posso ma vi diverto! Quanti soldi ho pagato in multe non riesco a ricordare ! A momenti dovevo pagare io per giocare!
Al termine di quella stagione millenovecentottantacinque comunque il Cádiz retrocesse, nonostante le mie reti, quattordici. Sono arrivato terzo nella classifica del Pichichi davanti a gente come Santillana, Hugo Sanchez e il mio amico Diego. A quel punto anche gli Italiani hanno provato a portarmi via da Cadice, dal mio piccolo paradiso. Quelli dell’Atalanta erano disposti a pagarmi cinque volte di più di quello che mi davano al Cádiz. Ma sapete com’è, i soldi per me non contano un cazzo, e soprattutto in quella città non si trovava pesce appena pescato! Per premio comunque mi fu concesso di partecipare ad una tournée estiva proprio con il Barcellona insieme a el Pelusa. Diego voleva che giocassi con lui e aveva spinto per avermi in quella tournée in modo che potessi convincere i dirigenti Culé a portarmi via da Cadice. Poi l’allenatore era Menotti e Diego aveva un certo ascendente su di lui. Intanto il viaggio l’ho fatto da solo e a mie spese perché ho perso l’aereo. Sapete una delle mie nottate epiche. Durante quei quindici giorni ho letteralmente oscurato la stella di Diego, la gente non aveva occhi che per me, el Mágico, quel tossico con la faccia da indio feo! Però, la notte era sempre in agguato, e per quanto fossi una star nel rettangolo verde ero un figlio di puttana fuori dal campo. Dirigenti e accompagnatori impazzivano nello starmi dietro. Però alla fine si erano tutti convinti che dovevo essere blaugrana.
Poi ci fu la storia dell’allarme antincendio. Maledizione che sfortuna! Nell’albergo che ci ospitava dopo la partita amichevole con il Fluminense ad un certo punto scatta questo cazzo di allarme. Tutti scappano. Fuori dall’albergo fanno la conta, manca qualcuno. Manca el Mágico. Cazzo, avevo rimorchiato una bionda da paura, eravamo ubriachi e ce la stavamo spassando alla grande. Non potevo uscire, non avevo mica finito, e poi non era colpa mia se è scattato l’allarme. Quelli del Barcellona non ci pensarono nemmeno un secondo, decisero fosse meglio perdermi che trovarmi. Tanto io a Cadice stavo troppo bene. Non mi fregava proprio niente!
Sono tornato a giocare nella mia amata cittadina Andalusa, in Segunda División, ma c’erano un po’ di problemi, tanti, troppi. Mi facevano giocare poco e quando lo facevo lo facevo molto male. Così a metà stagione me ne andai al Real Valladolid, ma anche qui le cose non andavano granché bene. Non potevo fare un cazzo. Mi facevano sentire come in carcere. A fine stagione ero senza squadra e si fecero sotto di nuovo quelli del PSG. Per la seconda volta. E per la seconda volta non andai a firmare il contratto. Mi stanno ancora aspettando! Ero senza una squadra e i miei vecchi tifosi del Cádiz non potevano permetterlo: il loro figlio prediletto, il loro idolo incontrastato che non poteva deliziare il mondo del calcio con la sua magia.
Sottoscrissero una petizione e così el Mágico torna a folleggiare per Cadice! Anche perché nel frattempo il matagigantes era tornato in Primera. Mi pagavano settecento dollari a partita. Ma a me dei soldi non è mai fregato un cazzo. Quanti ne ho prestati non potete immaginare. Ma lo sapete come la penso no? Il calcio è solo un gioco mica un lavoro. In più per tenermi tranquillo avevano pensato di portare a Cadice i miei genitori. Non li vedevo da due anni, erano a Cadice da quindici giorni e io ancora non ero andato a trovarli. Cosa volete, le notti Andaluse mi tenevano sempre troppo impegnato. Ero il principe della notte. Me ne andavo in giro con il mio amico José Monge Cruz, in arte Camarón, cantante gitano di flamenco famoso in tutta la Spagna. Forse il più grande di tutti i tempi. Una coppia di matti. Quanti casini abbiamo combinato. Il tecnico del Cádiz ha giocato tutte le carte possibili per cercare di motivarmi. Un giorno mi ha detto: “Ma cazzo, Mágico, hai già ventotto anni, hai messo dei soldi da parte? La vita di un calciatore è molto breve, cosa cazzo pensi di fare una volta che sarà finita?” Io in tutta onestà il mio sogno lo avevo. Volevo tornare nel mio Paese e fare l’autista d’autobus. “Brutto figlio di puttana!” Questo mi ha detto. Ma era solo la verità.
Alla fine però, fra alti e bassi, più bassi che altro in verità, a Cadice sono rimasto fino al millenovecentonovantuno. All’età di trentatré anni mi hanno dato del vecchio. Al Mágico! Possibile? Ho ringraziato ho fatto le valige e me ne sono tornato a casa per vestire di nuovo la casacca dei tigrillos del Club Deportivo FAS. Ho continuato a fare magie fino a quarantadue anni, e pensare che mi davano del vecchio. Ma dico io, può mai invecchiare la magia! Stronzi!
Oggi lo stadio nazionale di San Salvador porta il mio nome: Estadio Nacional Jorge “Mágico” González.
Oggi se andate al teatro a San Salvador potete godervi un’opera teatrale scritta da Geovani Galeas, scrittore Salvadoregno, dal titolo: San Mago, patrón del estadio.
Oggi ho smesso con il calcio. Sono come Henry Houdini, un mago, e come per lui sopravvive il mito, così è per me. Con la piccola differenza che il sangue che mi scorre nelle vene è ancora caldo, che io sono vivo. Senza un centavos è vero, ma vivo. Non ho mai voluto essere un calciatore modello, l’ho detto, il calcio è un gioco non un lavoro.
Guido pacifico il mio taxi, così posso dedicarmi elle cose che più amo: vivere la notte e dormire il giorno. Non mi frega un cazzo di nulla, non sono un santo e amo la notte! In fin dei conti gliel’avevo detto o no a quel cazzone di allenatore al Cádiz che il mio sogno era fare l’autista!