Calciatore, pilota e onorevole
Giu 15, 2022

In quei giorni di contestazione, di irriverenza culturale, di stragi (Piazza della Loggia, Brescia) e di Brigate Rosse già cattive ma non ancora all’apice (sequestro e rilascio del giudice Mario Sossi), c’era una straordinaria Lazio, la Lazio del 1974 di Tommaso Maestrelli, che assomigliava terribilmente a quegli anni. Una squadra identificata e strutturata nella propria follia. Irresistibile e miracolosamente unita in campo alla domenica, durante la settimana avviluppata e sviluppata attraverso violente lotte di potere. Divisioni in clan, risse, scazzottate negli spogliatoi, pistolettate ai lampioni dell’Hotel Americana, dove la squadra si trovava in ritiro prima delle gare all’Olimpico. Era quello un gruppo di campioni con la testa calda. “Cattivi” ragazzi quasi tutti simpatizzanti per l’estrema destra. Spaccati in due correnti di vita e di pensiero. La corrente di Giorgio Chinaglia-Giuseppe Wilson da una parte, quella di Luigi Martini e Luciano Re Cecconi dall’altra.

Luigi Martini e Giorgio Chinaglia

La Lazio eccessiva della metà degli anni settanta, molto più che border line, più delle altre squadre dell’epoca rappresentava il solco nelle quali contrapposizioni e conflitti erano (e sono) la principale arma creativa e agonistica del successo. E forse della vita. È la storia – come ha scritto Giulio Peroni su “Il sole 24 Ore” – epica, breve ma intensa, dello scudetto ’74 di Chinaglia e Re Cecconi, quest’ultimo morto tre anni dopo per mano di un gioielliere che aveva creduto al suo scherzo (assieme al compagno Ghedin) di fingersi rapinatore quando entrò nel suo negozio. «Fermi tutti questa è una rapina». ll gioielliere Bruno Tabocchini non lo riconobbe, gli scaricò addosso i colpi della sua Walther calibro 7,65.

Martini nel Livorno

Il dramma in un freddo 18 gennaio ‘77 a Roma, nella zona collina Fleming, quartiere trendy della Capitale molto frequentato dagli artisti pop dell’epoca e dai ragazzi di Maestrelli. Fu la fine della Lazio dei duri, degli incontrollabili, degli irripetibili. Ma anche degli uomini che sulla coscienza di quella squadra hanno poi costruito un percorso di vita camminato ancora su storie strane, inaspettati successi. Di quel gruppo, campione d’Italia il 12 maggio del 1974 (1-0 con il Foggia) in uno stadio Olimpico zeppo come un uovo, straripante di bandiere biancoazzurre, faceva appunto parte anche Luigi Martini. Un tipo eclettico, carismatico, toscano e terzino, talmente tosto da contendere la leadership della truppa a “Long John” Chinaglia, che di quella Lazio potente e molto anti-romanista era il cannoniere (24 reti in quell’anno di grazia ‘74).

Quella di Luigi è stata, è tutt’ora una vita singolare, spericolata e sperimentale, ma mai oltre certi confini. Prima calciatore, poi pilota di voli transoceanici, poi ancora onorevole (dal 96 al 2001 in An), ecco infine l’uomo di mare e per il mare (sette anni di vita su una barca), «perché come il cielo non conosce intermediazioni né risorse tecniche, il mare mette l’uomo di fronte a se stesso, al proprio coraggio, alla conoscenza – finalmente – del vero significato di vivere».

Martini e Tommaso Maestrelli

Martini, calciatore e uomo, ha sempre fatto parlare di sé. Nel libro Sogni perduti (Editrice Mursia) l’ex giocatore, classe 1949, è lui stesso a parlare della sua vita in prima persona. E forse ha ragione Antonio Ghirelli nella prefazione, quando afferma che questo lavoro sia uno dei più bei libri mai scritti sul calcio.

Nelle “tumultuose” partitelle settimanali di allenamento

«Anche se i suoi sogni come calciatore costituiscono soltanto una parte del racconto», Martini tratteggia bene il ricordo di quella Lazio che resta un fenomeno storico, unico nel mondo del calcio italiano. Anche perché allenata da un tecnico esemplare e a sua volta particolarissimo, cioè Maestrelli, un educatore quasi evangelico. Il tecnico morì per malattia due anni dopo la conquista dello scudetto, una tragedia che anticipò di un anno l’assassinio di Re Cecconi. Una maledizione su quella grande Lazio.

Martini in azione con la Lazio

Martini ci arrivò nel 1971, a 23 anni, con la squadra in serie B. Voluto e poi amato dal presidente Umberto Lenzini, un costruttore che apparteneva ad una delle famiglie più ricche di Roma, poi finito in vecchiaia travolto dai debiti e dai creditori. «Un uomo di grande umanità che ragionava con il cuore- ricorda Martini. Ci perdonò sempre tutto. Eravamo un gruppo di persone bizzarre, indisciplinate.

La passione per il volo. Eccolo mentre coinvolse anche il povero Luciano Re Cecconi

Uomini soli che davanti all’avversario diventavano undici. Non eravamo come Juve, Inter e Milan che vincevano gli scudetti attraverso un sistema professionale di regole e disciplina: noi eravamo l’opposto. E di etica neanche a parlarne. Eravamo una squadra di senza patria, come si vede solo nei film. E nonostante ciò non ci fu mai una volta che Lenzini abbia assunto nei nostri confronti atteggiamenti duri, oppure ostili. Per esempio nei momenti di libertà amavo lanciarmi con il paracadute e questo nonostante nel contratto ci fosse scritto che non potevo praticare attività pericolose. Avevo anche una moto e non avrei potuto. Il presidente non solo non mi vietò di farlo, ma era addirittura incuriosito. Se lui ci avesse impedito di esprimerci com’eravamo, probabilmente non avremmo raggiunto il traguardo, non avremmo vinto niente. Lui era il proprietario ma era anche uno di noi».

Il libro “Sogni perduti”

Nella stagione dello scudetto c’è un’avventura, un episodio rimasto inciso sullo spartito del tempo. Lazio- Verona, 14 aprile 1974. «Durante l’allenamento settimanale, prima di quella partita, ci siamo dati botte da orbi. I due schieramenti mai erano stati così divisi e così accaniti gli uni contro gli altri». Alla fine fine del primo tempo, con il Verona in vantaggio 1-2, al rientro degli spogliatoi Maestrelli fece fare dietrofront a tutta la squadra, la rispedì in campo. I giocatori si posizionarono immobili in mezzo al campo. Tutti al loro posto. I tifosi restarono increduli, poi capirono. Scoppiarono in un grande coro di incitamento. «Noi come statuine. Non un cenno, non un movimento. Respiravamo il distillato di potenza che ci veniva offerto dagli spalti. Neanche l’arbitro capiva. Gli avversari, quando arrivarono in campo per riprendere la partita, si trovarono di fronte ad un’amalgama ormai difficile da spezzare. E così fu». La Lazio vinse quella partita 4-2. Un mese dopo diventò campione d’Italia a due punti dalla Juventus. Lì finì la pazza Lazio, lì iniziò la sua leggenda.

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