Arrivò a Fiumicino il sabato più appiccicoso di un agosto rovente. Quell’anno a Roma era già più di una settimana che si stava sopra i 35 gradi. Ci arrivò dopo tredici ore di viaggio. Era ridotto uno straccio. Alzò lo sguardo, fissò il tabellone degli arrivi, accanto al numero del suo volo, CA939, c’era indicata una città inesistente: Likoma. Se fosse stato meno stanco avrebbe riconosciuto che quello era un presagio. Con lui c’era sua moglie. La figlia no, quella arrivò a fallimento già avvenuto.
“Aho, famme un sorriso”. Il fotografo gli arrotolò una sciarpa del Perugia al collo: “Aho, Bruce Lee, famme sto cazzo de sorriso che dar giornale se faccio tardi me rompono li cojoni”, e cominciò a scattare. “Uot du iu laik in Italy?” stavolta era uno dei due giornalisti che lo avevano aspettato, a parlare. Lui mandò giù la saliva, fece per aprire bocca.
Lo bloccò l’interprete. “Ma dice che per lui l’Italia è una grande occasione. Dice che lui è orgoglioso di essere il primo cinese a giocare nel nostro campionato. Ma dice che ringrazia il Perugia per la fiducia e cercherà di dimostrare il suo valore sul campo. Dice che il suo soprannome in Cina è ‘Cavallino’ perché non si stanca mai di correre. Dice che non vede l’ora di conoscere l’allenatore e i nuovi compagni di squadra. Andiamo adesso, che si è fatto tardi”.
I giornalisti presero diligentemente nota e ringraziarono l’interprete. Il giorno dopo lo portarono al campo di allenamento. Sembrava un grissino che doveva sgretolarsi da un momento all’altro, correva al rallentatore, dopo ogni giro di campo aveva la striscia di bava bianca sulle rughette della bocca. Un pensionato che si trascina in tuta la domenica mattina a Villa Borghese, con il cuore che fa tum-tum e la faccia sfigurata dallo sforzo, quello era.
Si allenò tutta la settimana, diligentemente, perché ci teneva a far bella figura. La domenica gli dissero che era ancora presto per giocare. Si allenò tutti i giorni della settimana successiva, e di quella dopo, e di quella dopo ancora. E ogni volta gli dicevano: non sei ancora pronto. Si allenò cinque mesi, non giocò neppure un minuto.
Una volta un dirigente andò dal presidente Gaucci e gli chiese: “È lui o abbiamo preso quello sbagliato? Non è che c’è stato uno scambio di persona?” Gaucci rispose solo: “Ma”. Non voleva essere una battuta, e in effetti né lui né il dirigente risero.
Foto a fianco: ancora Ma Ming Yu con il Perugia
Il cinese Ma Ming Yu fu il primo cinese a non giocare nel campionato italiano. Cinque mesi dopo erano ancora a Fiumicino, lui e sua moglie, sala d’attesa, biglietto di sola andata per Pechino, altre tredici ore di viaggio. Tornò in Cina per giocare con la sua vecchia squadra, la Si-chuan-Quanxing di Cheng-Du, l’estate successiva con la nazionale andò anche al Mondiale in Corea e Giappone, a due passi da casa.
Quando lo videro in mondovisione quelli del Perugia seppero definitivamente che a quella domanda: “È lui o abbiamo preso quello sbagliato?” non ci sarebbe mai stata una risposta. Quando Ma tornò in Cina sua figlia Yu Wen aveva due anni e sette mesi, conosceva un centinaio di parole in italiano. Quando diventò più grande, suo padre le spiegò che la sua Italia fu un pallone che correva troppo veloce perché lui potesse sperare di dargli un calcio. Glielo spiegò in cinese, più precisamente nel dialetto cinese di Cheng-Du.
Furio Zara