Vincenzo Montefusco, l’unico napoletano riuscito nel sogno di diventare prima giocatore, poi allenatore del Napoli. L’unico che ha fatto divenire realtà il sogno di un ragazzino. Di certo non una cosa che succede a tutti. Parla ai microfoni de Il Mattino:
E allora cosa fa oggi Vincenzo Montefusco?
“Quello che ho sempre fatto, ho 76 anni, dicono che a questa età si diventa vecchi, ma io mi dedico un po’ alla scuola calcio di mio figlio, la Montefusco Soccer di Agnano”.
Le manca il campo?
“Molto. Nonostante la mia età a volte faccio anche qualche allenamento con i ragazzini di 13 anni”.
Lei, ad esempio, che tipo era?
“Per la mia personalità e il mio carattere combattevo per quello che potevo avere. Non sono mai sceso a compromessi con dirigenti e società e nessuno ha cercato di crearmi problemi. Da allenatore ho sempre fatto le mie scelte. Nel calcio di oggi sento spesso di allenatori aziendali, devono esserlo, certo, ma senza mai abbandonare le proprie idee. Se credi in determinati giocatori devi metterli in campo. E non perché ti venga imposto dall’alto”.
Ma se non avesse fatto il calciatore e l’allenatore cosa avrebbe fatto?
“Probabilmente mi sarei dato al mondo dell’arte”.
Di che tipo?
“Mi sono sempre piaciuti l’antiquariato e l’arte. Mi sarebbe andata bene lo stesso se avessi scelto questa strada? Chissà. Ma intanto ho seguito la mia passione anche da amatore. Certo, non posso dire come sarebbe andata perché non l’ho mai fatto come professione”.
Cosa le piace?
“I quadri della Napoli dell’Ottocento. Sono pitture bellissime che rappresentano la città di Napoli. Fino a qualche anno fa andavo anche per mostre e mercatini per arricchire il mio bagaglio”.
Artisti preferiti?
“La maggior parte dei pittori napoletani dell’Ottocento. Sono molto campanilista, l’ho anche dimostrato da calciatore e da allenatore seppur commettendo anche qualche errore”.
Di che genere?
“A parità di valori ho sempre mandato avanti qualche giovane napoletano”.
Perché?
“Mi ricordavo come eravamo trattati noi da ragazzi e se potevo davo una chance in più ai napoletani. Ma ovviamente sempre se la meritassero. Le scelte si possono anche sbagliare, ma ho sempre preferito aiutare i napoletani”.
Ha qualche rimpianto legato a un ragazzo che non è riuscito a lanciare pur avendolo avuto sotto al naso?
“In linea di massima sono stato fortunato, anche se qualcuno mi è scappato perché qualche osservatore gli offriva contratti da sogno in club del nord”.
Ad esempio?
“Fabio Quagliarella era uno di quelli che stava nella nostra orbita e poi ci è stato soffiato sotto al naso. Mi avrebbe fatto piacere portarlo avanti. Così come Gianluca Grava che era nel mio settore giovanile e poi dopo un po’ di tempo ci ha lasciato. Anche in quel caso non ho mai capito come ci sia sfuggito, avevo anche allenato suo padre ai tempi della Casertana”.
Però si è preso le sue soddisfazioni.
“Il mio è stato il settore giovanile nel quale sono stati lanciati più giovani. Sono stato aiutato dalle condizioni della prima squadra che ci dava modo di lavorare. Ho fatto sia l’allenatore della Primavera che il responsabile del settore giovanile. Abbiamo vinto il campionato italiano Allievi e con il mio gruppo abbiamo conquistato la Coppa Italia. C’erano Longo, Coppola e Scarlato, affrontammo l’Atalanta che schierava tra gli altri Morfeo e aveva in panchina Prandelli, il futuro ct della Nazionale”.
La soddisfazione più grande?
“Essere stato l’allenatore che ha fatto debuttare Paolo Cannavaro e Stendardo in prima squadra. Quella volta ero squalificato e in panchina c’era Abbondanza al quale dissi di farli giocare. Poi ho dato spazio a tutti gli altri: Longo, Scarlato e Coppola… La cosa più bella è che ancora mi chiamano e mi ringraziano”.
Passo indietro: un personaggio chiave nella sua carriera è stato Antonio Juliano, prima compagno di squadra e poi suo dirigente.
“Siamo cresciuti insieme e siamo ancora amici. Avevano creato questo dualismo tra noi solo perché giocavamo entrambi mezzala ma ci siamo sempre voluti bene”.
Da allenatore del Napoli ha centrato un grande successo e ha subito una grande delusione.
“Per me la salvezza in serie A è stata capace di cancellare l’amarezza della sconfitta nella finale di Coppa Italia col Vicenza”.
Come mai?
“Dopo trent’anni in cui avevo giocato nel Napoli non volevo diventare l’allenatore della retrocessione”.
Eppure quella salvezza passò quasi in secondo piano dopo il ko in finale di Coppa.
“Ci siamo salvati vincendo con la Roma e facendo 2-2 con la Fiorentina. In realtà la ricordano in pochi come impresa ma per me è stata una soddisfazione incredibile perché ricevetti una vera e propria patata bollente da Bianchi che era direttore generale. Ero titubante ma era una grande soddisfazione anche se la squadra era in caduta libera”.
Nel periodo della lotta salvezza c’era anche la doppia finale di Coppa Italia.
“La squadra aveva vinto la prima gara al San Paolo, purtroppo solo per 1-0. Nel finale di stagione la domenica ci salvammo nella partita contro l’Inter. Il mercoledì successivo avevamo il ritorno della finale a Vicenza. La squadra era scarica dal punto di vista mentale e fu una disfatta”.
Eravate appagati dalla salvezza?
“A noi avrebbe fatto piacere sollevare anche la Coppa, ma quella partita fu maledetta. Sullo 0-0 fui espulso, e poco prima della sanzione dissi all’arbitro Braschi che se mi avesse buttato fuori non avremmo avuto speranze di farcela. Sapevo dentro di me che era una partita difficile”.
Ci fu anche il caso legato al mancato impiego di Beto.
“Me lo portai in panchina anche se non giocava da molto tempo perché si era operato al ginocchio. Il medico Lino Russo mi disse che comunque non avrebbe potuto giocare. I napoletani però non capivano che non stava bene”.
Centrocampista, Montefusco cresce nel Napoli e dopo tutta la trafila nelle giovanili, esordisce in maglia azzurra prima nel 1962 in una gara di Coppa Italia (trofeo che quell’anno il Napoli vincerà), e poi in serie A il 10 febbraio 1963, poco più che diciassettenne, in un Genoa-Napoli terminato 3-2, segnando il primo gol dei partenopei in quella gara. Nell’agosto 1964 ha giocato due gare amichevoli (contro Varese e Velez) nelle fila dell’Inter. Col tempo, le gare da titolare aumentano, insieme ad Antonio Juliano, con cui nel 1965 è promosso con i partenopei in serie A (nel frattempo retrocessi in Serie B due anni prima).
In massima serie gioca con José Altafini ed Omar Sívori, e sfiora lo scudetto prima nel 1966 (terzo posto) e poi nel 1968 (il Napoli finisce secondo in campionato a 9 punti dal primo), anno in cui, il 25 maggio, Montefusco esordisce in Nazionale Under 23 nella gara contro i pari età dell’Inghilterra disputatasi a Trieste.
Dopo alcuni campionati, lascia il Napoli in prestito per indossare le maglie di Foggia (1970-‘71) e Lanerossi Vicenza (1972-‘73), sempre in serie A. Tornato nuovamente alla base nel 1973, non rientra nei piani del nuovo mister degli azzurri Luís Vinício, che lo impiega pochissimo in quella stagione (6 gare fra campionato e Coppa Italia). Nell’estate del 1974 lascia ancora una volta per un anno i partenopei, accasandosi al Taranto in serie B, dove gioca le ultime gare di campionato della sua carriera. Tornato al Napoli ormai solo per doveri contrattuali, infatti, scenderà in campo dal 1975 al 1977 soltanto in una gara di Coppa delle Coppe e in due gare di Coppa Italia, segnando in questa competizione il gol nella sua ultima gara ufficiale della carriera, il 29 giugno 1977, in Napoli-Bologna 1-0, partita giocata sul neutro di Bari e valevole per il girone finale della manifestazione italiana.