A Trieste, la gente ha una certa conoscenza della bora, il forte vento che arriva dai Balcani e spazza la città, il porto, il mare. Appena un poco più a nord, a Udine, la bora non arriva. Ci arrivò, invece, nell’autunno del 1987, Bora, che allora era poco più che un bizzarro personaggio delle panchine di calcio. Velibor Milutinovic era nato, una quarantina d’anni prima, in un cittadina serba posta al confine con la Bosnia. Era cresciuto orfano e aveva imparato che “casa” e “famiglia” sono concetti liquidi, che variano da persona a persona, che possono essere continuamente ridefiniti. E mentre affinava questa filosofia, si guadagnava da vivere come interno di centrocampo nel Partizan di Belgrado dei primi anni Sessanta: c’era anche lui, nella rosa degli Crno-beli che affrontò il Real Madrid nella finale di Coppa dei Campioni del 1966, pur non disputando la finale.
Anche l’Udinese vestiva in bianconero, seppur meno glorioso. Solo un anno prima – come racconta Valerio Moggia su “Pallonate in faccia” – l’imprenditore Giampaolo Pozzo aveva rilevato la società e investito non poco per portare in Friuli addirittura tre campioni del mondo: gli azzurri Fulvio Collovati e Ciccio Graziani, e l’argentino Daniel Bertoni. Ma l’Udinese era rimasta coinvolta nello scandalo del Totonero-bis, penalizzata e alla fine costretta alla retrocessione in B. Era ripartita con l’intenzione di riottenere subito la Serie A, ma la rosa si era decisamente ridimensionata, e dopo appena cinque giornate il tecnico Massimo Giacomini – che era stato il protagonista della scalata dalla C alla A un decennio prima – venne esonerato. Pozzo era un presidente ambizioso in un mondo, quello del calcio italiano, sempre più ambizioso.
La scelta di ingaggiare un giovane allenatore straniero era solo il primo passo di un cammino che, di lì a vent’anni, avrebbe reso l’Udinese una delle società più solide in circolazione e un perfetto trampolino di lancio di tanti talenti provenienti da ogni parte del mondo. Bora Milutinovic aveva appeso gli scarpini al chiodo da undici anni. Dopo quella finale non disputata di Coppa dei Campioni, aveva ottenuto il consenso del regime jugoslavo a trasferirsi all’estero, e aveva iniziato la sua vita da vagabondo, prima in Svizzera, poi in Francia – dove vinse un paio di titoli con il Nizza – e infine in Messico. Laggiù, aveva trovato l’El Dorado.
No, non i numerosi titoli conquistati come allenatore del Pumas, dove aveva chiuso la carriera da giocatore, ma sua moglie Maria. Era divenuto messicano, e aveva creduto di aver placato così la sua vocazione da esploratore. Nel 1983, la Federcalcio locale gli aveva affidato la panchina del Tricolor, che da anni si era ormai stabilmente affermata come potenza del calcio nordamericano, ma che stentava a ottenere risultati di riguardo ai Mondiali, da cui mancava ormai dall’edizione argentina del 1978. Il 1986 era divenuto un obiettivo imprescindibile, per i messicani: a causa del clamoroso ritiro della Colombia, l’organizzazione era tornata eccezionalmente alla nazione centroamericana, primo paese nella storia a ospitare due edizioni del torneo.
Per certi versi, il Messico e l’Udinese un po’ si assomigliano. Non nei giocatori – in Friuli doveva accontentarsi di Claudio Vagheggi, in America poteva contare sul bomber del Real Madrid Hugo Sanchez o sull’emergente Carlos Hermosillo – quanto piuttosto nelle speranze. Entrambi vogliono tornare nella vetrina del calcio che conta, dopo lungo tempo passato ai margini. L’Udinese ha alcuni giovani interessanti – Beniamino Abate tra i pali, Aldo Firicano e Vittorio Pusceddu in difesa, Davide Fontolan a centrocampo – e l’esperienza di Graziani e di un altro ex-azzurro del 1982 come Beppe Dossena; a ottobre, come ultimo rinforzo, quasi assieme a Milutinovic, arrivò in squadra l’ex-promessa della Roma Ubaldo Righetti.
Il tecnico serbo annunciò che la promozione era alla portata, e il pubblico friulano andò in visibilio: “Qui c’è poco da cambiare, i giocatori sono bravi: non servono rinforzi”. Bora partì in casa, contro il Piacenza, con una netta vittoria per 2-0 che fece sperare fosse possibile risalire presto la china. Ma la giornata successiva perse il derby a Trieste, rifacendosi poi contro il Barletta, di nuovo con un convincente 2-0 interno. L’Udinese di Milutinovic – che in panchina era assistito, non avendo il patentino per allenare in Italia, da Marino Lombardo – ha due facce: una in casa e una in trasferta. D’altronde, il suo grande successo – ciò che lo ha reso noto nel mondo e, quindi, anche alle orecchie del presidente Pozzo – è un grande risultato ottenuto in mura amiche.
Nel 1986, il suo Messico aveva dominato il proprio girone eliminatorio davanti a Belgio, Paraguay e Iraq, per poi sconfiggere la Bulgaria agli ottavi di finale e cedere, solo ai calci di rigore, contro la Germania Ovest. Il Tricolor non aveva mai vinto così tante partite in un Mondiale né aveva giocato in maniera così organizzata. Ma allenare una nazionale non è come allenare un club, e allenare in America Latina non è come allenare in Italia. Il giudizio della tifoseria per la sconfitta nel derby con la Triestina era una macchia difficile da lavare, e gravava sulle già note fragilità dell’Udinese. A novembre, i bianconeri persero la solita trasferta – stavolta in casa del Genoa – per poi superare di misura al Friuli un Parma in difficoltà; a Catanzaro, una rete nel primo tempo di Chiarella fissò il risultato in favore dei calabresi. Poi, a fine mese, quel precario e non certo rassicurante equilibrio andò del tutto in frantumi.
Ospitando la forte Atalanta di Emiliano Mondonico, l’Udinese fu ribaltata 3-0, e a tutti apparve chiaro che l’ingaggio del tecnico serbo-messicano era stato un azzardo che poteva costare caro. Pozzo lo trattenne, sperando in un miracolo, per altre due giornate – due trasferte, ovviamente due sconfitte, a Brescia e Lecce – e poco prima di Natale lo rimandò a Città del Messico, rimpiazzandolo con Nedo Sonetti, che la stagione precedente aveva condotto l’Atalanta in finale di Coppa Italia.
A Bora fu chiaro che, nonostante i suoi successi con il Pumas, la via dei club non faceva per lui: pochi mesi prima di quella brutta esperienza in Italia, aveva già accettato una chiamata dall’Argentina per guidare il San Lorenzo de Almagro, e anche lì era finita in fretta e con poco da ricordare. In Messico diverse squadre erano disposte a costruirgli ponti d’oro per vederlo sulla propria panchina, ma a Bora tornò prepotente quell’istinto del viaggiatore che l’aveva accompagnato per tutta la vita e che ora non voleva più mollarlo.
La vita del sedentario, per lui, era innaturale tanto quanto una vita senza calcio. Poco tempo dopo, accettò la panchina della Costa Rica, e contro ogni aspettativa qualificò la minuscola nazione caraibica ai Mondiali del 1990, tornando in Italia da trionfatore e raggiungendo degli insperati quarti di finale.
Disputò la competizione iridata altre tre volte: nel 1994 con gli Stati Uniti, nel 1998 con la Nigeria e nel 2002 con la Cina, compiendo un’altra miracolosa qualificazione. Nei suoi viaggi, lavorò in Honduras, in Qatar, in Giamaica e in Iraq, continuando a perlustrare le frontiere del mondo del calcio, perché è lì che vanno gli avventurieri e gli esploratori.