Per uno che poteva rimanerci secco nel settembre del 1990 arrivare nel 2018 vuol dire ventotto anni in più vissuti. Azeglio Vicini nel settembre dopo i Mondiali di Italia 90 era a casa sua, nella Riviera romagnola, a pochi chilometri dalla sua amata Cesena, quando cadde dal balcone. “Rubano la macchina, presto, rubano la macchina”, urlò sua moglie, lui uscì in terrazzo per vedere e vuoi per l’umidità, vuoi per il pavimento bagnato, vuoi per le ciabatte non in gomma, scivolò, superò il parapetto, colpì la tenda della pizzeria sottostante e si schiantò al suolo. “Pareva morto”, ricordò qualche giorno dopo la moglie. Lui all’ospedale si risvegliò dopo poche ore e “ho tranquillamente mangiato tagliolini in bianco, bistecca e verdura cotta. La cucina romagnola è grande anche in ospedale”, ricordò a Repubblica. Alla Domenica Sportiva ironizzò: la caduta da casa mia ha fatto meno male di quella a Napoli, quando la Nazionale di calcio italiana venne battuta in semifinale ai rigori dall’Argentina di Maradona. Azeglio Vicini è morto nel 2018 a 84 anni.
Era nato nel 1933 a Cesena. Come ricorda Giovanni Battistuzzi nel suo ritratto su Il Foglio, Con “la passione del pallone già in culla”, ricordò il padre quando aveva già intrapreso la carriera da calciatore. Era centrocampista tra gli anni Cinquanta e Sessanta, più di corsa che di piedi, più di cuore che di classe. Lanerossi Vicenza, prima in B e poi grande protagonista della risalita in serie A, poi Sampdoria e infine Brescia, città che sceglierà per invecchiare. “Vicini? Me lo ricordo come allenatore, quello sì, anzi come commissario tecnico, ma come giocatore no, per niente, e sì che negli anni Sessanta allo stadio ci andavo sempre a vedere la Samp”, ricorda Francesco Pion, per cinquant’anni gestore del negozio di memorabilia della Sampdoria in centro a Genova.
Quando si ritirò dal calcio giocato Vicini passò dritto in panchina, sempre al Brescia. “Un allenatore in campo questo è certo. In panchina però doveva migliorare. Ma era la sua prima esperienza”, raccontò alla Gazzetta l’ex presidente del Brescia calcio Aldo Lupi. Era il 1975 e Vicini era diventato commissario tecnico della Nazionale Under 23. Pochi anni prima di Vicini alla Stampa parlò Eraldo Monzeglio, terzino dell’Italia campione del mondo nel 1934 e 1938 e poi allenatore della Sampdoria negli anni del Vicini calciatore. In panchina Monzeglio non si distinse mai per bravura e in bacheca possiede solo un campionato di serie B. Alla domanda “chi dei tuoi calciatori potrà emularti?”, rispose: “Sicuramente Gino Stacchini (suo giocatore alla Juventus nella stagione 1963-’64 NdR) che il campo lo studiava, i giocatori sapeva già quando giocava come farli muovere e soprattutto perché ha la capacità di innovare. E poi forse Vicini, che è forse più intelligente tatticamente di Stacchini, ma è uno a cui piace la sicurezza del posto fisso e si è inserito infatti nello staff della Nazionale”. Stacchini, ala di buon tocco e di buona corsa, l’allenatore non lo volle mai fare davvero, divenne famoso soprattutto per la sua relazione con Raffaella Carrà. Vicini invece l’allenatore lo divenne sul serio, sempre con il paracadute del posto fisso in Nazionale, come diceva Monzeglio.
Vicini in Nazionale fece la classica trafila che andava di moda allora. Negli anni che dai Settanta diventarono Ottanta il ct la Federazione preferiva costruirselo in casa. Alla compagine maggiore ci si arrivava dopo le esperienze nelle formazioni giovanili. Fu così per Enzo Bearzot, passato dall’Under 23 alla Nazionale maggiore. Fu così anche per Vicini, che di Bearzot fu il successore. Diversissimi per carattere, erano invece simili per impostazione di gioco. Difesa a quattro, due centrocampisti di contenimento, uno di inserimento, due ali, una larga sulla fascia, l’altra con possibilità di accentramento e un centravanti dal grande fiuto del gol.
Il tecnico cesenate arrivò sulla panchina azzurra nel 1986, trascinò la squadra alle semifinali del Campionato europeo del 1988 e poi fece lo stesso nel Mondiale casalingo di due anni dopo.
Era quello delle “Notti magiche inseguendo un gol”, quello del più incredibile Roberto Baggio visto in maglia azzurra, della sorpresa ubriacante di Totò Schillaci, del cammino intonso sino a quella disgraziata notte di Napoli: vittorie con Austria, Stati Uniti, Cecoslovacchia ai gironi, e poi Uruguay e Irlanda agli ottavi e ai quarti. Era quella la squadra che insegnò calcio per un’ora all’ultima Argentina di un grande Maradona (quando giocò nella Coppa del Mondo del 1994 il Pibe de oro era già quasi un ex giocatore). Poi quell’uscita sgangherata di Zenga regalò ai sudamericani il pareggio e a noi l’onta dei rigori sbagliati. Fu un colpo dal quale non ci alzammo più per due anni, nonostante il terzo posto raggiunto battendo l’Inghilterra. Agli Europei del 1992 non ci qualificammo nemmeno.
Gli anni di Vicini in azzurro sono stati quelli di una generazione di grandissimi giocatori: da Baggio a Mancini, da Vialli a Baresi, da Donadoni a Maldini, da Bergomi a De Napoli e Ancelotti. Una generazione che però non vinse nulla. Non che fosse colpa di Vicini, non che fosse colpa di qualcuno in particolare. Non vinse e basta, come non vinse, con le dovute ed enormi differenze, l’Olanda di Cruyff, Rep e Neeskens. Sono cose che misteriosamente succedono e succedono sempre quando in campo c’è un Germania attrezzata per non perdere. Gli anni di Vicini in azzurro sono stati quelli di un 4-3-3 moderno che molto ha insegnato agli amanti di questo modulo. Un modo di giocare all’attacco, ma con il freno a mano a facile portata, che ha premiato anche giocatori di fantasia che forse diversamente non avrebbero trovato spazio. E questo nonostante quello che dice Roberto Mancini che a Vicini non risparmiò mai critiche (d’altra parte non lo faceva giocare, gli preferiva Baggio). “Nella partita che ci costò la finale, quella contro l’Argentina – disse il Mancio anni dopo -, sarebbe bastato mettere Vierchowod su Maradona. Lo avrebbe annullato e tutto sarebbe cambiato. Lo avrebbe visto anche un cieco: ma, purtroppo, non Vicini”. Nel 2000, Silvio Berlusconi, commentando la sconfitta dell’Italia agli Europei in finale con la Francia, se la prese con il tecnico Dino Zoff reo di aver messo Pessotto in marcatura su Zidane. L’Italia, si sa, è terra di artisti, eroi, santi. E allenatori.