Se non fosse per il calcio quasi nessuno in Europa conoscerebbe Vila-real. La cittadina spagnola di cinquantamila sorge ad una sessantina di chilometri da Valencia ed è di per sé ordinaria, nel proprio stile mediterraneo. Arance prima e azulejos poi sono stati il tratto distintivo e la maggiore fonte di reddito per gli abitanti della città della provincia di Castellon. Il 2006 è una sorta di anno zero per la cittadina spagnola, fondamentalmente per due motivi: la scelta di chiamare la città con la formula valenciana (Vila-Real appunto e non Villareal) e soprattutto per lo straordinario percorso compiuto dalla squadra di calcio in Champions League.
Per molti anni le fortune calcistiche del Villareal vanno di pari passo con l’ordinarietà storia della città. La squadra venne fondata nel 1923 e per molti anni gli unici tratti distintivi furono il giallo acceso che caratterizza il colore della maglia, lo stadio che, coerentemente con la maggiore fonte di reddito della città, di chiama Estado della Ceramica (già noto come Madrigal) e il soprannome “El submarino amarillo” nato nel 1967 quando la promozione nella terza serie spagnola venne festeggiata con il successo di quell’ epoca dei Beatles Yellow Submarine.
Il primo approdo in Liga risale al 1998 e i primi anni nel calcio che conta sono contrassegnati da un alternarsi di fortune e sfortune. La svolta arriva nel 2003 con l’approdo in maglia gialla di Juan Roman Riquelme, uno dei giocatori più suggestivi proposti dal calcio sudamericano negli anni duemila. Il trequartista argentino è reduce da un’annata sfortunata a Barcellona, in cui non era riuscito ad entrare nei cuori dei tifosi e dell’allenatore Van Gaal che lo impiegava nell’improbabile ruolo di esterno di centrocampo.
Sotto alcuni aspetti Riquelme è il giocatore argentino che più assomiglia a Maradona dopo il suo addio al calcio. A differenza del Pibe de oro, però, Riquelme è lentissimo. Jorge Valdano lo descrive mirabilmente osservando come, se un giocatore normale per andare da un punto A ad un punto B ci metterebbe due ore impiegando un’autostrada a quattro corsie, Riquelme ce ne metterebbe sei percorrendo una tortuosa strada panoramica ma riempiendo gli occhi di paesaggi meravigliosi. Il tocco di palla di Riquelme è infatti sontuoso, così come la sua visione di gioco che gli consente di accendere le partite con dei lampi di classe rara, che lo rendono un giocatore incredibilmente spettacolare e allo stesso tempo essenziale. Dopo i fasti al Boca Juniors Riquelme arriva con l’etichetta di incompiuto e di svogliato e di certo la faccia triste da indio e il carattere introverso che gli valgono il soprannome di “El mudo” non gli consentono di farsi amare da un pubblico esigente come quello del Camp Nou. All’Estadio de la Ceramica però è diverso e dopo un anno di apprendistato l’impatto a Villareal è impressionante: con 15 gol e 11 assist guida gli amarilli alla conquista della Coppa Intertoto e al terzo posto nella Liga che vale la prima storica qualificazione in Champions League.
La compagine allenata da Manuel Pellegrini ha una chiara impronta sudamericana e sembra un’armata di galeotti vogliosi di rivalsa uniti a giovani di belle speranz . In porta c’è Pepe Reina, liquidato in fretta e furia da Barcellona e capace di parare sette rigori su nove in tutto il campionato. Al centro della difesa ci sono due argentini brutti, sporchi e cattivi: l’esperto Rodolfo Arruabarrena e il futuro fiorentino Gonzalo Rodriguez. Sulle fasce la spinta è assicurata da Juan Pablo Sorin, reduce dai fallimenti italiani con Juventus e Lazio. In mediana si distingue un altro prodotto del Boca Juniors, Sebastian Battaglia, supportato dal brasiliano Marcos Senna e da Santi Cazorla. In attacco la punta di diamante è l’uruguaiano Diego Forlan, spedito senza troppi rimpianti a Villareal dal Manchester United e laureatosi capocannoniere del campionato. A fargli da spalla ci sono Josè Mari, reduce da un’esperienza non proprio memorabile al Milan, e Lucho Figueroa. Per l’approdo in Champions nella stagione successiva il sottomarino giallo deve rinunciare a Reina, ceduto al Liverpool, che viene sostituito dall’argentino Mariano Barbosa proveniente dal Banfield ma il centrocampo acquista esperienza con l’arrivo dalla Juventus di Alessio Tacchinardi.
Nel girone il Villareal se la vede con Benfica, Lille e Manchester United. Il percorso è un trionfo, anche se gli incontri sono tutt’altro che spettacolari: gli spagnoli segnano tre soli gol in sei partite ma ne subiscono solo uno. Dopo i tre pareggi nelle prime tre partite gli amarilli espugnano Lisbona con un gol di Marcos Senna e, dopo un altro pareggio per 0-0 nella seconda partita con il Manchester United , ottengono la qualificazione grazie alla vittoria casalinga nella decisiva sfida contro il Lille grazie alla rete nel finale del subentrato Guayre. Agli ottavi al sottomarino giallo toccano i Rangers Glasgow. L’andata in Scozia è infuocata con gli spagnoli che vanno in vantaggio due volte prima con Riquelme e poi con Forlan ma si fanno sempre rimontare. Al ritorno al Madrigal gli scozzesi segnano nelle prime battute con un grave errore difensivo del portiere ma il gol ad inizio ripresa di Arruabarrena vale la continuazione del sogno.
L’impegno ai quarti appare però proibitivo perché il Villareal trova sulla propria strada l’Inter allenata da Mancini. Nel match di San Siro Forlan segna il preziosissimo gol in trasferta, Adriano e Martins rimontano ma lasciano tutto aperto per la sfida di ritorno. All’Estadio de la Ceramica, al ritorno più che ad una partita di calcio sembra di assistere ad un regolamento di conti. L’Inter prova a difendere il risultato dell’andata ma ad inizio ripresa Riquelme pennella una punizione sulla testa di Arruabarrena che approfitta di un’uscita avventata di Toldo e sigla il gol qualificazione. Accade il miracolo, il Villareal va su tutti i giornali, la città fino a quel momento nota solo per gli azulejos balza agli onori della cronaca anche per il calcio. Mica male passare in otto anni dalla prima promozione in Liga ad una semifinale di Champions.
Sulla strada della finale gli spagnoli trovano un’altra inglese, l’Arsenal di Henry e Pires, che in quegli anni vive il periodo migliore dell’era Wenger. I Gunners sono stranamente competitivi in Europa quell’anno e alla pura estetica abbinano anche i risultati. La semifinale è per tutte e due le squadre un traguardo storico visto che nessuna delle due è mai arrivata a quel punto della competizione. A Londra i padroni di casa vincono 1-0 con un gol di Kolo Tourè lasciando però tutto aperto per il match di ritorno. Due settimane dopo Villareal ha gli occhi del mondo addosso. Sembra una gigantesca sagra paesana, come se Bruce Springsteen atterrasse per caso a Celle Ligure e tenesse il concerto più importante della sua carriera. I 24.000 dell’Estadio de la Ceramica sospingono il sottomarino giallo con un urlo incessante, quasi come se in campo ci fossero tutti i cinquantamila abitanti che per quel giorno lasciano da parte gli azulejos per portare la squadra sul tetto di Europa.
Nonostante gli sforzi però la partita non si sblocca, gli spagnoli sono legnosi e accusano l’emozione e hanno nel solo Riquelme il giocatore che può accendere la partita. Si arriva così all’88 minuto sullo 0-0, quando Sorin scodella un cross in area e Clichy travolge Josè Mari. Rigore ineccepibile e lo stadio esplode. Sugli spalti gli spettatori urlano, si abbracciano, sono increduli per la gioia. Ancora mezz’ora di speranza, da giocarsi alla pari. La finale non sembra mai così vicino come in quel momento. Nessuno all’Estadio de la Ceramica sembra avere dubbi in quel momento sul fatto che il rigore verrà trasformato. Si tratta di una formalità prima dei tempi supplementari.
Tra i 24000 sugli spalti e i raccattapalle in campo l’unico ad avere la faccia triste è El Mudo Riquelme, giocatori e staff dell’Arsenal escluso ovviamente. Sul volto gli si legge chiaramente la tensione e l’espressione stanca amplifica ulteriormente i suoi tratti da indio.
Tiene la testa bassa, Riquelme, quando va a calciare quel rigore, dà un bacio poco convinto alla palla e la appoggia lentamente sul dischetto. Più che un uomo ad un passo dalla gloria sembra un uomo vicino al patibolo come se la sua fama di incompiuto si frapponesse tra lui e Lehman in quell’istante, in quei lunghissimi undici metri. Ci si può nascondere tante volte nella vita, si può spesso scappare ma mai si può far finta di niente quando ci sono di mezzo le proprie insicurezze. Riquelme è il leader, deve tirare quel calcio di rigore ed ovviamente lo segnerà. Chissà cosa passa nella testa del fuoriclasse argentino, gli occhi mostrano più la paura di sbagliare che la certezza di segnare. Ne viene fuori un tiro lento, a mezza altezza, che Lehman non ha problemi a neutralizzare. E’ così che si aggiornano le biografie, è così che si modifica la storia.
Baggio nel ’94 ha trascinato l’Italia alla finale dei mondiali ma ha sbagliato il rigore decisivo, per Riquelme è lo stesso, aggiunge una piccola grande croce nella delizia della storia del Villareal. Colpisce quello che resta, a fine partita: nei minuti di recupero arriva una palla a Riquelme, al limite dell’area. Oramai non corre più (non che prima l’abbia fatto più di tanto), oramai è schiavo dei propri fantasmi. Prova un tiro al volo quasi per caso, una prodezza. Ma non c’è voglia, non c’è convinzione è solo una preghiera ad un Dio che l’ha tradito. Il tiro viene rimpallato e un attimo dopo la partita finisce. L’Arsenal va in finale e il pubblico torna nelle proprie case come dopo una sbornia colossale. Ora si può tornare alle vite di tutti i giorni, agli azulejos, al mare della Communidad Valenciana. Ora si può tornare ad essere un punto di Europa dimenticato ed estremamente ordinario. Riquelme lascia il campo con la sua solita espressione da indio afflitto. In fondo lui quelle persone le ha fatte sognare e non è certo colpa sua se ad un certo punto sia arrivata l’ora della sveglia. Peccato che il suono sia stato così brusco.
Valerio Zoppellaro