La parola della lingua italiana che Aurelio Andreazzoli detesta più di tutte le altre è Aurelio. Dove sta la differenza tra la definizione dell’identità e l’eccesso di rabbia? Sta nell’articolo determinativo. Aurelio detesta l’Aurelio, le ragioni dell’odio si possono immaginare facilmente e capire immediatamente. In un’intervista concessa a Dazn nello scorso ottobre, dentro quella che doveva essere la solita chiacchierata piatta pensata appositamente per riempire gli ultimi minuti prima del fischio d’inizio, Andreazzoli perse la pazienza (una cosa che non gli è certo capitata spesso, in carriera e nella vita). «Nel calcio – disse – certe volte si viene ricordati più per le stupidaggini che per le cose serie». Si trovava davanti al microfono, al centro dell’inquadratura della telecamere, e gli era toccata in sorte l’ennesima domanda sull’Aurelio, la parola della lingua italiana che Andreazzoli detesta più di tutte le altre. Gli era capitata di nuovo, ancora una volta in corrispondenza di un suo ritorno a Roma.
La storia dell’Aurelio ormai la conoscono tutti, ed è proprio per questo che Aurelio alla fine ha dovuto e ha voluto perdere la pazienza: perché la storia di Aurelio senza l’articolo determinativo prima, invece, la conoscono in pochi. Più che orgoglio c’era frustrazione, in quella rispostaccia di Andreazzoli: deve essere spiacevole trovarsi riassunti sempre e comunque con il gesto, nella prodezza di qualcun altro. Quella giocata di Rodrigo Taddei – impossibile da descrivere per chi l’ha vista, impossibile da capire per chi non l’ha vista – è stata trasformata da omaggio a sfregio una ripetizione dopo l’altra, di banalità in banalità. A ripensarci, fa impressione confrontare il numero di volte che a Taddei la giocata è riuscita in una partita e il numero di volte in cui Andreazzoli si è sentito porre la domanda prima, durante o dopo una partita. «Nel calcio certe volte si viene ricordati più per le stupidaggini che per le cose serie». Davvero.
Se Aurelio con l’articolo determinativo davanti non fosse la parola della lingua italiana che Aurelio Andreazzoli detesta più di tutte le altre, lo si potrebbe usare come espediente per raccontare quella che molti considerano la dote fondamentale dell’allenatore dell’Empoli. «Conosce i giocatori», si diceva ai tempi in cui fu scelto per sostituire Zeman sulla panchina della Roma. Abituati (assuefatti) alle formule della lingua del calcio – ricorda “Rivista Undici” – tutti quanti assegnammo ad Aurelio Andreazzoli il ruolo di traghettatore, quel mestierante del pallone il cui unico compito è far sì che una squadra parta dal punto A e arrivi al punto B seguendo una linea retta quanto le circostanze lo permettono. In realtà, Andreazzoli è uno che i giocatori li conosce davvero: della conoscenza del prossimo – un prossimo assai peculiare come il calciatore, sempre a metà tra il divo e il dipendente, tra il professionista e l’allievo – Andreazzoli ha fatto la parte fondamentale del suo lavoro, del suo metodo. Conosceva talmente bene Taddei da sapere che l’unico modo per convincere un ragazzo timido di indole a lasciarsi andare all’esibizionismo in campo era punzecchiarlo, sfidarlo: per giorni, settimane, mesi, Andreazzoli spendeva una parte del suo tempo e delle sue energie a stuzzicare Taddei affinché facesse in partita quello che faceva in allenamento. Ma Aurelio non inizia e non finisce con l’Aurelio, appunto. Negli anni si è guadagnato altri soprannomi, definizioni che più gli appartengono e che meglio lo rappresentano: “nonno” per i modi concilianti e la tendenza pacificatrice, intuibile nelle conversazioni fitte fitte e nelle lunghe passeggiate attorno al campo, sottobraccio il giocatore al quale in quel momento serve pronunciare o ascoltare certe parole; “padre” nel senso ecclesiastico della parola, per i modi e i toni da pastore di anime, da esperto di rammendo.
Nonno e padre, entrambi i nomignoli ad Andreazzoli sono stati dati a Empoli. C’è una storia con la quale si è soliti segnare la svolta recente nella carriera di Andreazzoli, quella che l’ha portato sulla panchina dell’Empoli, alla vittoria del campionato di Serie B, alla promozione nella massima serie, agli esoneri e ai ripensamenti, alle partenze e ai ritorni. È un’altra storia, questa, che probabilmente farebbe arrabbiare Andreazzoli se venisse messa e ripetuta in una domanda. La storia vuole che a consigliare al presidente dell’Empoli Fabrizio Corsi di affidare la squadra ad Andreazzoli sia stato Luciano Spalletti. Che Andreazzoli e Spalletti siano amici oltre che colleghi è cosa nota: i due hanno frequentato assieme i corsi di Coverciano, condividevano la stanza in cui dormire e le opinioni da discutere (Spalletti all’epoca era assai intrigato dal 3-5-2, per dire di quanto il tempo del calcio giri in tondo).
Aurelio e Luciano condividevano soprattutto l’ammirazione per Franco Ferrari, “il Facchetti di Voltri”, il calciatore che fu bandiera del Genoa e che da ex-calciatore divenne il maestro covercianese di molti allenatori che sarebbero venuti. Tra questi allenatori ci furono anche Andreazzoli e Spalletti, che da Ferrari assorbirono prima di altri nozioni per l’epoca avveniristiche: il calcio come didattica, la squadra come piccola azienda, l’allenatore come manager, il calciatore come individuo. Un mentore i cui insegnamenti terranno assieme i due allievi per gli anni a venire: quelli di Udine e poi quelli di Roma, con Spalletti a fare il re e Andreazzoli nella parte del re oscuro, parte che manterrà anche sotto i tanti reucci che da Roma passeranno negli anni. “Il tattico”, così veniva definito, una parola che ancora non siamo riusciti a ripulire dall’accezione negativa che ogni volta compare nelle nostre menti a sentirla nominare: perché fa solo il tattico e non l’allenatore, che pezzo, quale parte gli manca? Per Andreazzoli, Empoli è stata l’opportunità di dimostrare una cosa che avrebbe dovuto essere evidente già da prima: non gli mancava nessun pezzo, nemmeno una parte, c’era una carriera intera tra categorie minori e calcio giovanile e tutta la Toscana a dimostrarlo. Purtroppo il calcio è un mondo in cui le aristocrazie sopravvivono, un nazione indipendente in cui conta soltanto mostrarsi degni di appartenere alla nobiltà.
Prima di diventare assistente di Spalletti all’Udinese e poi alla Roma, e di guidare in prima persona la Roma, l’Empoli e il Genoa, Andreazzoli ha allenato la Massese, il Tempio, l’Aglianese, il Grosseto e l’Alessandria, tra Serie C1, C2 e Serie D.
In questo momento l’Empoli sta facendo un ottimo campionato di A vista la sua caratura. È difficile togliersi dalla testa la convinzione che la naturalezza che l’Empoli mostra in campo sia conseguenza della comodità con la quale Andreazzoli pare finalmente accomodarsi in panchina. Nella sua parentesi genoana si avvertiva un certo impaccio, una specie di imbarazzo: spesso si infilava in un completo elegante troppo attillato, portava la camicia sbottonata di un bottone di troppo, sfoggiava una collana che era un pegno alla vanità, come se stesse cercando di definire – per se stesso e per gli altri – un personaggio degno del palcoscenico. A Genova finì male, salutò mestamente dicendo che lui sapeva «come vanno le cose nel calcio». Quest’anno a Empoli si è visto un allenatore sempre raffinato nelle soluzioni e astuto nelle scelte, ma ormai pacificato con una storia personale perfettamente riassunta dalla comodità della tuta.
C’è un episodio che forse spiega tutto e meglio: dopo il 2-2 in rimonta contro il Torino dello scorso 2 dicembre, Andreazzoli si presenta davanti alle telecamere di Dazn e dice che il merito di tutto è della giornalista Barbara Cirillo. «Mettiamo a posto le cose, dobbiamo dare il suo a chi va dato. Tu avevi detto che preferivi Di Francesco in avanti e Henderson sulla trequarti. Io non ti ho ascoltato e ho fatto il contrario e si è visto il risultato parziale, che è andato malissimo. Allora ho corretto, ricordavo quello che mi avevi detto e alla fine del primo tempo siamo andati con Di Francesco in avanti e Henderson sulla trequarti. Ti ringrazio e invito i miei colleghi ad ascoltare i suggerimenti di Barbara».
Andreazzoli non è un uomo di cui si sappia molto, le sue interviste sono poche e le sue parole si fermano sempre prima della soglia dell’indispensabile. Quest’anno, però, ha pronunciato una frase che probabilmente spiega tutto di lui: gli dicono che con i suoi 68 anni è vecchio, e lui ammette che è vero, è il l’allenatore più anziano di tutti quelli attualmente seduti sulle panchine di Serie A. Ed è proprio questo il punto, è esattamente questa la ragione per la quale soltanto adesso le cose per lui stanno funzionando davvero: «Il vantaggio di avere una certa età è che si hanno meno pressioni. Non ho un futuro da costruirmi, sono qui solo dare soddisfazione al club e ai ragazzi».