Spericolato. Lo dicevano per offendermi. Soprattutto gli inglesi. Gli inglesi mi odiavano. Non è che odiassero proprio me, ce l’avevano con il mio stile, con l’idea che avevo del ruolo. Ero spettacolare, sì. Civettavo, certo. Istrionico, e allora? Non c’era niente di male nel piacere alla gente, farla sobbalzare e trepidare con un volo sulla palla, ma lo capisco, lo ammetto, le mie parate non c’entravano nulla con i biscottini e il the delle cinque. Io ero il Gatto Magico, io ero Aldo Olivieri.
Se c’era da lanciarsi sui piedi di un attaccante, non mi sono mai tirato indietro. Sapevo bloccare la palla in presa volante come nessuno al mondo. Ero completo, il pubblico guardava me, e il pubblico devi farlo divertire. Agli inglesi non andava giù. Scrissero che ero un concentrato di Douglas Fairbanks senior, Errol Flynn e i primi martiri cristiani. Ma ero fenomenale, e loro lo sapevano.
Ho scelto di giocare a calcio perché ero pigro. Mio padre Angelo faceva il calzolaio. Mi aveva regalato una bici, un’Atala da corsa, avrò avuto quindici-sedici anni. All’epoca le bici avevano due pignoni, uno libero e uno fisso. I campioni erano Girardengo, Binda, Belloni. Io tifavo per Belloni, quello che vinceva meno. Ma il più grande di tutti era Binda. Andavo a vedere le corse. Per far vincere i corridori della mia città, i veronesi, prendevo dei chiodi larghi dalla bottega di mio padre e li lanciavo lungo le strade, sotto le ruote degli avversari: Bresciani e i fratelli Pancera sapevano, evitavano le forature pedalando ai bordi.
Un giorno mi arrampicai da Verona sulla salita di Boscochiesanuova, sentii le gambe diventare marmo, l’errore fu guardare in alto, capii che non sarei mai più arrivato in cima. Avevo come due tenaglie alla tempia, la bocca secca, il gelo nelle ossa. Puntai il manubrio verso la valle e tornai indietro, il ciclismo non faceva per me.
Gli amici giocavano un torneo di calcio sei contro sei, gli mancava un portiere, andai fra i pali per fargli un favore. Presi quattro gol, ma stavolta non guardai la cima, tenni lo sguardo sui miei piedi, a valle non tornai. Dovevo capire cos’era successo, perché mi avessero segnato. Abitavo a duecento metri dal campo dell’Hellas Verona, così andai a buttare un occhio agli allenamenti, era un martedì. In porta giocava un ragazzo di vent’anni, Guido Masetti, si esercitava facendo battere il pallone contro un muro, un muro irregolare, di ciottoli, i rimbalzi non erano mai uno uguale all’altro, bisognava avere riflessi da felino. Domani provo anch’io, mi dissi, e cominciai. Portai il mio pallone sullo stesso muro, ma dall’altra parte, sull’esterno, ogni giorno, ogni giorno, ogni giorno. Chiudemmo il torneo al secondo posto, mi diedero una medaglia come miglior portiere. È l’unica che mi sia rimasta, le altre i ladri le hanno portate via, tutte, compresa quella d’oro dei Mondiali del ’38.
Guido Masetti divenne il mio maestro, prima di cedermi il posto nel Verona e andare a vincere uno scudetto con la Roma. In allenamento mi facevo spesso male, quasi mai in partita. Eccetto quella volta a Padova, dove mi ero trasferito. Uscii come una palla di cannone sulle scarpe del centravanti della Fiumana, lui mi prese alla testa senza volerlo, frattura del cranio, dovettero usare il trapano. I medici esclusero che io potessi tornare a giocare, per 40 giorni mia madre la mattina andava a pregare Sant’Antonio. Rimasi fermo un anno intero, ma tornai. Erno Erbstein, l’ungherese che allenava la Lucchese, mi volle con lui. Lo raggiunsi con il mio buco nella testa. Soffrivo di emicranie pazzesche, come se dentro la mia fronte ci fosse stata la scatola del meteo. Ai miei compagni dicevo: “Mettete i tacchetti lunghi sotto le scarpette che fra poco piove”. Ridevano. Solo che poi pioveva davvero. Lucca è la città delle cento chiese, la mattina le giravo quasi tutte ma non entravo. Mi chinavo all’esterno sulle scale, senza mettere le ginocchia a terra, facevo il segno della croce e scattavo in piedi. Allenavo la mia elasticità e pregavo di tornare quello di prima, due movimenti insieme. Erbstein mi mandava due volte alla settimana con le sue figlie a scuola di danza classica, voleva che migliorassi nell’equilibrio e nel controllo del corpo. Gianni Brera mi avrebbe poi chiamato Ercolino Sempre-in-piedi. Imparai a stare sulle punte, due anni dopo ero in Nazionale.
Pozzo mi chiamò per Germania-Italia a Berlino. 1936. Se dovessi dire che ero emozionato, sarebbe una bugia. Segnammo con Colaussi, poi il tedesco Siffling fece una doppietta, eravamo intorno alla fine del primo tempo. Nell’intervallo Allemandi, il nostro capitano, si avvicina e mi fa: “Senti, una cortesia, smettila di parlare troppo”. Davo ordini a tutti, soprattutto ai due terzini, Monzeglio e Allemandi, anche se loro erano famosi e io no. Io giocavo ancora in serie B. La mia idea è che un portiere è il padrone dell’area di rigore, deve litigare e se capita deve anche tirare fuori i pugni per farsi obbedire. Quelli che sono venuti dopo di me hanno fatto comandare i difensori. Gli risposi: “Ascolta, io parlo eccome, ci sono abituato”. La partita finì 2-2, pareggiammo con Giovanni Ferrari, Allemandi alla fine mi mise una mano sulla spalla e disse: “Sei bravo, se vai avanti così, mi sa che vieni ai Mondiali”. Tornai a casa felice, in treno, su una carrozza di seconda classe e con un panino comprato alla stazione.
Del Mondiale vinto mi rimase solo una spilla che mettevo al bavero della giacca. Aveva un rinforzo dietro, così i ladri non poterono portarmela via. Una spilla e un ricordo: la parata a due minuti dalla fine nella partita di primo turno contro la Norvegia. Al Velodrome di Marsiglia ventimila antifascisti fischiarono il nostro saluto romano. Segnammo subito, poi crollammo. La Norvegia pareggiò a 7 minuti dalla fine e segnò di nuovo, ma il gol venne annullato per fuorigioco. All’88’ mi venne incontro palla al piede questo ragazzone di nome Brynhildsen. Calciò all’incrocio dei pali, andai a prendere la palla lassù, in cima, stavolta ero arrivato a Boscochiesanuova. Prima di battere l’angolo, il norvegese chiese all’arbitro di sospendere il gioco per un attimo, volle venire a stringermi la mano, un tempo si usava così. Nei supplementari Piola afferrò una respinta del portiere e fece 2-1, ma per tutti avevamo rubato la partita. Quando lasciammo lo stadio presero a sassate il nostro pullman.
Pozzo aveva voluto che mi allenassi con Arturo Maffei, un campione di salto in lungo, devo a lui la mia esplosività fra i pali. A piedi uniti, con un balzo, toccavo la traversa con la spalla. Dopo la Norvegia, Pozzo cambiò formazione. Foni al posto di Monzeglio, dentro Biavati e Colaussi all’ala. Battemmo la Francia, il Brasile, l’Ungheria in finale. Fummo campioni. Se Brynhildsen avesse fatto gol, l’Italia avrebbe un titolo mondiale in meno e un’ombra ancora più lunga su quello di quattro anni prima, al quale invece regalammo più credibilità.
Dopo il Mondiale, Erbstein mi portò al Torino. Ho giocato con Gabetto, Ossola e Menti, amici perduti a Superga, come Erbstein. Lasciai il Toro nel ’42, mentre dal Venezia arrivavano Loik e Mazzola. Stavano per cominciare a vincere. Ho fatto l’allenatore. Un giorno, quando sono all’Inter, mi capita di incontrare Binda. Mi faccio coraggio e gli domando se avesse mai forato sulle strade di Verona. Mi rispose che sapeva di certi lanci dei chiodi, perciò si metteva nella scia dei corridori di casa, di Bresciani e dei Pancera. Nel ’53 mi chiama l’avvocato Gianni Agnelli nel suo studio. Mi fa: “Quanto vuole per allenare la Juventus?”. Io ci penso un attimo e gli rispondo: “Sa, avvocato, adesso guadagno 60 mila lire, avrei piacere di guadagnarne 80 mila”. Lui obietta, arrota la erre e mi risponde: “Veda, Olivieri, io con 30 mila lire trovo un ingegnere che mi fa un’auto nuova”. Allora, gli dico: “Avvocato prenda un ingegnere e lo metta sulla panchina della Juve”. Prese me.
Sono invecchiato giocando alla marianna nel mio bar, il bar Olivieri, sulla passeggiata di Viareggio, dove avevo conosciuto la mia Piera. Le promisi che a sessant’anni avrei smesso, e così ho fatto, da allora sono rimasto a casa. Con Adolfo, Ugolino e Mario, le vecchie glorie di Viareggio, la sera si parlava di pallone.
Aldo Olivieri è morto nel 2001 a novant’anni.
A un Torneo di Viareggio aveva visto un ragazzino giocare in porta e aveva detto: Quello lì andrà in nazionale. Si chiamava Buffon.
(Le parole liberamente attribuite ad Aldo Olivieri sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)
Angelo Carotenuto