Non c’era molta gente a festeggiare la rete di Claude Butlin, che consentiva al Reforma Athletic Club di consacrarsi per la quinta volta campione nazionale. In Messico, il calcio non sembrava aver attecchito come in altri paesi americani: quando era stata fondata la Liga Amateur de Football Association, nel 1902, i club partecipanti erano quattro, poi erano saliti fino a cinque ma, otto anni dopo, ci si ritrovava con appena tre squadre. Ci voleva una rivoluzione, per cambiare le cose. Proprio come sottolinea Valerio Moggia nell’articolo “Pancho Villa, Zapata e il calcio nel Messico rivoluzionario”. E una rivoluzione arrivò. Nel 1910, il Reforma si apprestava a vincere il suo quinto titolo nazionale, confermandosi come la grande potenza del calcio messicano. Nazionale era una parola grossa: da sempre, il fútbol era un affare limitato al solo Distrito Federal, cioè l’odierna Città del Messico, e a club creati dall’alta borghesia inglese che spadroneggiava indisturbata nel paese. Erano quasi esclusivamente gli inglesi come Butlin a giocare, e solo in rari casi era permesso ai messicani – sia chiaro: ricchi messicani, magari pure di ritorno dagli studi in Inghilterra – di associarsi ai club. Era il caso, ad esempio, di Jorge Gómez de Parada, primo messicano a esordire nel campionato nel 1903, proprio con la casacca blanco-azul del Reforma. I pochi club non-inglesi erano semisconosciuti e molto lontani dalla capitale, come il Guadalajara, fondato nel 1908 da immigrati francesi e belgi. La situazione del fútbol rifletteva quella di tutto il paese: il Messico era da oltre trent’anni stretto nella morsa della dittatura di Porfirio Díaz, un liberale che, una volta vinte le elezioni, aveva istituito un duro regime autoritario, legato agli interessi della Chiesa locale e dei grandi proprietari terrieri, molti dei quali di origine straniera. Chi ci aveva rimesso maggiormente era stata la classe lavoratrice, impiegata nelle grandi piantagioni e composta in larga parte da nativi: subiva una doppia repressione, sia sotto il profilo dei diritti sindacali sia sotto quello razziale. I messicani poveri, che rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione, erano esclusi dalla vita sociale e politica tanto quanto dalla pratica sportiva.
Era il 20 novembre 1910, quando un gruppo di esuli armati attraversò, in una scena che oggi descriveremmo come da film western, il Rio Grande: alla loro testa c’era Francisco Ignacio Madero, un uomo di nemmeno quarant’anni che proveniva da una ricca famiglia dello stato di Coahuila, ma che aveva sviluppato una forte coscienza sociale democratica e progressista. Due anni prima aveva denunciato pubblicamente i crimini del regime e invitato a votare per lui alle elezioni. Díaz lo aveva fatto arrestare e infine costretto all’esilio negli Stati Uniti, ma ciò non aveva fatto che aumentare di prestigio la figura di Madero presso la popolazione, e la notizia del suo ritorno si era sparsa rapidamente: ben tredici insurrezioni erano scoppiate in poche ore in tutto il paese, in suo sostegno.
La rivoluzione scoppiò con particolare veemenza proprio nelle zone rurali, quelle più duramente colpite dal Porfiriato. Nello stato di Durango, nel Messico centrale, un ex-conducente del tram di nome Jesús Agustín Castro mise insieme un gruppo di rivoltosi, assaltò una banca e il carcere della città di Gómez Palacio, liberando i prigionieri e convincendoli ad unirsi alla causa maderista. Nel grande stato settentrionale del Chihuahua, Pascual Orozco – un ex-lavoratore divenuto proprietario di una piccola miniera – si alleò con il bandito Pancho Villa, e in pochi giorni i due espugnarono Ciudad Juárez. Nel sud, nello stato di Morelos, un politico figlio di una delle famiglie impoverite dal regime, Emiliano Zapata, prese il controllo della regione e iniziò a strutturare un sistema egualitario di autogestione, senza capi né differenze sociali. Nel giro di un anno, il regime di Porfirio Díaz crollò e il vecchio dittatore dovette ritirarsi a Parigi, mentre Madero assumeva la guida del nuovo governo.
Con Díaz, lasciarono il Messico molti ricchi inglesi preoccupati per una possibile svolta socialista della politica messicana, che li avrebbe privati delle terre per ridistribuirle tra i campesinos. Questo evento causò un improvvisa crisi tra i club di calcio, che persero improvvisamente molti soci e alcuni dei giocatori più forti del tempo, come Camphuis, Thomas e Bennetts. Il vuoto che ne seguì, permise l’emergere dei primi club messicani e della classe lavoratrice, causando uno sconquassamento simile solo a quello di circa trent’anni prima in Inghilterra: il periodo tra il 1912 e il 1913 può tranquillamente essere paragonato a quello tra il 1882 e il 1883 dall’altra parte dell’oceano, quando l’Old Etonians, vinse la sua ultima FA Cup, per poi venire sconfitto dal Blackburn Olympic, mettendo fine all’epoca del calcio dilettantistico dell’alta borghesia. In Messico, l’Old Etonians fu ovviamente il Reforma, che dopo il titolo del 1912 venne battuto la stagione seguente dal Club México, fondato da messicani appena due anni prima, in piena rivoluzione, e che annoverava in rosa alcuni dei migliori calciatori locali dell’epoca, come il portiere Cirilo Roa, l’attaccante Serafín Cerón, e anche la stella Jorge Gómez de Parada, il cui passaggio dal Reforma al Club México testimonia meglio di qualsiasi altra cosa lo spirito del tempo. Sempre nel 1912, due lavoratori immigrati dalla Spagna fondarono il Real Club España, che si impose subito come il nuovo dominatore del campionato. Ma altre squadre fecero la loro comparsa: nel 1915 il Germania FV, fondato da immigrati tedeschi e vincitore di un titolo nel 1921; nel 1916 il Club América, ad opera di studenti di due collegi di Città del Messico, che poi avrebbe conquistato ben quattro titoli negli anni Venti; nel 1918 il Club Asturias, creato da immigrati spagnoli asturiani e poi vincitore del campionato del 1923.
Purtroppo per il Messico, la caduta del Porfiriato non significò il ritorno alla stabilità. Alla fine del 1911, Madero e Zapata avevano rotto le loro relazioni, e il ribelle del Sud aveva ripreso le armi contro quella che riteneva una svolta troppo moderata. Nel 1913, il generale Victoriano Huerta, che era stato collaboratore di Díaz, organizzò un colpo di stato e assassinò Madero, instaurando una nuova dittatura destrorsa con l’appoggio di Orozco, ma trovandosi subito in guerra contro Villa, Zapata e altri ribelli guidati da Álvaro Obregón e Venustiano Carranza. I ribelli costituzionalisti deposero infine Huerta e costrinsero Orozco alla fuga negli Stati Uniti, ma subito dopo il fronte vincitore si spezzò in due: da un lato i più moderati Carranza e Obregón, dall’altro i radicali Villa e Zapata. La guerra andava avanti. Nonostante tutto questo, il calcio non si fermò, e anzi cresceva sempre più d’importanza nella società messicana: da passatempo dei ricchi stranieri, stava affermandosi come strumento di riscatto sociale delle classi disagiate. Ma tenere in piedi un campionato in un paese in guerra comportava non poche difficoltà.
All’epoca, il Pachuca Athletic Club era l’ultima squadra inglese di alto profilo sopravvissuta all’esodo: i suoi fondatori, però, non erano borghesi, ma bensì minatori scozzesi e della Cornovaglia, e la squadra era l’unico dei primi grandi club messicani a non avere sede a Città del Messico, bensì nella città mineraria di Pachuca, nello stato di Hidalgo. Per i soci del club, giocare in campionato significava compiere lunghe e pericolose trasferte per raggiunge la capitale. Una volta ne compirono una su di un camion di materiali diretto alla miniera di Santa Gertrudis, che probabilmente sarebbe stato lasciato in pace dai rivoluzionari. Sul mezzo, però, c’era posto solo per dieci giocatori, e a Fred Williams toccò raggiungere Città del Messico a cavallo; Alfred C. Crowle, da vero capitano, decise di accompagnarlo. Lungo il viaggio s’imbatterono in un gruppo di guerriglieri, che inizialmente li scambiarono per statunitensi e decisero di arrestarli e fucilarli. I due calciatori riuscirono a dimostrare la propria identità e furono rilasciati; persi nella sierra, si fecero accompagnare da alcuni campesinos al villaggio più vicino, da cui presero la strada per tornare a Pachuca. Si ricongiunsero coi compagni di squadra dopo sei giorni di viaggio, quando erano ormai dati per dispersi, e ovviamente senza aver potuto disputare la partita.
Crowle divenne poi allenatore del Pachuca, conducendolo alla conquista del titolo nel 1918 e nel 1920, affermando alcuni grandi giocatori dell’epoca come Salvador Roldán, Enrique Esquivel e Alfonso Ortiz, probabilmente il più forte calciatore messicano della sua generazione. Purtroppo, le difficoltà logistiche del Pachuca portarono all’addio di molti dei suoi elementi, che preferirono trasferirsi in zone più tranquille del paese, se non proprio a Città del Messico. Lo stesso Crowle, nel 1923, andò a lavorare per una compagnia elettrica della capitale, e poté così partecipare alla fondazione del Club Necaxa. Nel frattempo, il Pachuca entrò in crisi e si sciolse, per essere rifondato solo trent’anni più tardi. La nomina di Carranza a capo del governo, nel 1917, segnò la fine del periodo rivoluzionario, ma solo a livello ufficiale: i costituzionalisti controllavano soltanto una porzione del paese, mentre il resto era preda di vari movimenti ribelli, tra cui quello di Villa al nord, quello di Zapata al sud, e anche di uno facente capo a Félix Díaz, nipote di Porfirio, di spirito controrivoluzionario. Nel 1919, Zapata fu preso in trappola e assassinato dal governo, e la stessa cosa accadde a Felipe Ángeles, braccio destro di Villa. Un anno dopo, Carranza e Obregón entrarono in contrasto, e quest’ultimo scatenò un golpe, prendendo il potere e facendo uccidere il presidente. A questo punto, Villa depose le armi e si accordò col nuovo governo, mettendo fine ai conflitti; Obregón, che non voleva tra i piedi una figura scomoda come quella di Villa, lo fece assassinare nel 1923.
Pancho Villa spariva dalle scene il 20 luglio e il Messico entrava in una nuova fase della sua storia, quella della stabilità democratica. Gli equilibri del calcio locale si erano riassestati, dando vita finalmente a un campionato diffuso e pienamente messicano, in linea con la spinta nazionalista del nuovo governo. Il 9 dicembre, per la prima volta una selezione nazionale scendeva in campo a Città del Messico, sconfigendo per 2-1 il Guatemala. Cinque anni più tardi, il Messico avrebbe fatto il suo esordio in una competizione internazionale, venendo eliminato al primo turno del torneo olimpico di Amsterdam per mano della Spagna. Il 17 luglio dello stesso anno, Obregón veniva assassinato ad opera dei cristeros, rivoltosi cattolici che si opponevano alla politica anticlericale del governo laburista. Plutarco Elías Calles ereditò il potere, trovando un accordo con la Chiesa e fondando una nuova forza politica che potesse controllare tutte le altre, il Partido Nacional Revolucionario: Calles diede così il via a un decennio di politiche populiste e autoritarie, che da un lato strizzavano l’occhio al riformismo progressista e al socialismo, e dall’altro al nazionalismo e all’economia capitalista. Fu così che la rivoluzione svanì, e con essa gli ideali che l’avevano accompagnata. Sopravvisse solo nel calcio, divenuto ormai sport di massa nel paese. Nel 1930, Il Messico disputò la prima edizione dei Mondiali, e cinque anni dopo ottenne il suo primo grande successo, conquistando in scioltezza la medaglia d’oro ai Giochi Centrocamericani e dei Caraibi: l’ossatura era quella del mitico Necaxa, il club di punta degli anni Trenta, e in panchina sedeva Alfred C. Crowle, l’ultimo degli inglesi del Messico.