La prima stracittadina calcistica di Portopalo, comune siciliano situato all’estremità sudorientale della Sicilia, al di sotto del parallelo di Tunisi. All’inizio degli anni 80, in questo microcosmo di tremila anime, per alcune stagioni si fronteggiarono, nel campionato di terza categoria, l’Us Portopalo e la Polisportiva Capo Passero. La prima sfida fu epica, degna di un racconto dello scrittore argentino.
Di che cosa parla il libro? Di calcio?
No. Parla dei goal che uno si perde nella vita.
Del calcio degli scarpini rattoppati, della passione, della poesia e dei sogni …
Storie di calcio, come la vita, piene di risate e di pianti, ricordi e speranze, pene ed esaltazioni.
Questo racconto non poteva non cominciare con le parole di Osvaldo Soriano, il grande scrittore argentino, nume tutelare dei cercatori di storie di futbol, stella polare dei bracconieri di “cuentos” dove la palla di cuoio è il centro di tutto. Erano i primi Anni 70 quando a Portopalo di Capo Passero, piccolo comune marinaro dell’estremità sudorientale della Sicilia, ultima propaggine di terra geograficamente posta al di sotto del parallelo di Tunisi, arrivò l’arbitro Concetto Lo Bello di Siracusa, una delle giacchette nere più importanti nella storia del calcio italiano. Venne ad inaugurare la sede della locale associazione sportiva.
La terza categoria, ovvero l’ultima serie dei dilettanti, vedeva in campo la squadra portopalese dalla prima metà di quella decade, in un periodo in cui il paese non aveva ancora conquistato l’autonomia amministrativa dalla vicina Pachino. Il Portopalo faceva parte del girone provinciale siracusano. Allora vigeva una consuetudine: la squadra di casa doveva sostenere le spese di quella ospite. Centomila lire circa, una somma utile per pagare almeno il carburante alle macchine che trasportavano i giocatori. La compagine portopalese era sempre di scena in trasferta per la mancanza del campo. Mettiamola così: Eupalla, il dio del football creato dalla penna di Gianni Brera, quando inventò il calcio ignorò quel minuscolo puntino nell’universo, ignoto a moltissimi, posto all’estremo lembo sudorientale della Sicilia. La conseguenza di questa dimenticanza fu il castigo eterno di non avere un campo regolamentare. Ogni domenica, ad un dirigente portopalese era affidato l’ingrato compito di recarsi nelle case di alcuni giocatori per convincerli a partecipare alla partita, litigando spesso con mogli e madri dei calciatori. Doveva così sorbirsi le lamentele di chi non ne voleva sapere di pallone, completini, calzettoni e partite domenicali. Una delle formazioni più forti del Portopalo di terza categoria annoverava alcuni elementi dai piedi buoni. Sebastiano Gennuso, detto Crema, aveva movenze alla Bochini: dribbling fulmineo, sempre pronto a trovare il varco giusto per concludere a rete. In una partita dribblò sette giocatori, mise a sedere il portiere e depositò di tacco il pallone in rete. Salvuccio Campisi, soprannominato Pipiolo (Pepe), era un’ala veloce e dagli spiccati fondamentali tecnici mentre Corrado Quattrocchi (Muscuzza) impersonava il regista vero e proprio, dall’elevata visione di gioco e una notevole capacità di leggere l’azione in anticipo sugli avversari, grazie anche ad una confidenza con il pallone ben al di sopra della media locale. Tra i pali stazionava Corrado Scala, soprannominato Testa di Cartone, che alternava prodezze spettacolari ad errori madornali. Un estremo difensore senza mezze misure: parate superlative e papere nel volgere di pochi minuti, da far smadonnare anche il più cristiano dei giocatori in campo. In attacco, Pietro Cannarella era la torre, il centravanti veloce e dallo stacco aereo notevole, capace di creare tanti pericoli nell’area avversaria, difficile da marcare. Dalle movenze sembrava Ciccio Graziani anche se, considerata la sua fede calcistica, gli avrebbe fatto più piacere l’accostamento con Spillo Altobelli. A tutto campo svariava Nino Quartarone, detto Motorino, un pachinese brevilineo e molto veloce con la palla al piede, dotato di buoni fondamentali tecnici e capace di vedere spesso la porta avversaria. In mediana stazionava Andrea Quattrocchi, tecnicamente meno elegante del fratello Corrado ma in possesso di un mix di resistenza e coraggio che lo rendeva efficace nei momenti in cui la partita saliva di tono e di cattiveria.
In quel microcosmo, all’estremo lembo di terra siciliana, il calcio non sfuggì al manicheismo e alla logica dei guelfi e ghibellini. Così, tra la fine degli Anni 70 e l’inizio della decade successiva, per alcune stagioni il futbol locale ebbe due società in terza categoria: all’Unione Sportiva Portopalo, colori sociali azzurri, si aggiunse la Polisportiva Capo Passero, in casacca giallonera. Gli azzurri decisero di puntare su giocatori stagionati, i gialloneri si focalizzarono sul settore giovanile per poi fare il salto in terza categoria. Con due squadre dello stesso comune, la stracittadina diventò la partita più attesa della stagione. Gli altri incontri di campionato erano solo una preparazione alla sfida diretta. Epici furono alcuni derby portopalesi che si tennero nell’arco di tre anni. Il bilancio registrò due vittorie della Capo Passero, un successo del Portopalo e tre pareggi.
La partita più bella ed emozionante fu la prima edizione della stracittadina più a sud d’Europa, conclusasi con un pirotecnico 3-3. Allo stadio Brancati di Pachino arrivò un pubblico delle grandi occasioni: almeno 700 spettatori sugli spalti su un totale di 2.800 abitanti. Un portopalese su quattro quel giorno assistette a quella partita. Nel primo tempo, il Portopalo fu capace di violare per tre volte la rete avversaria. Un divario che già a metà gara sembrò mettere la parole fine sulla partita. Nella seconda frazione di gioco, dopo un netto fallo da rigore in area della Capo Passero, l’arbitro, mosso forse da un moto di compassione umana, non decretò la massima punizione che avrebbe potuto dare il poker di reti al Portopalo. Alle proteste dei giocatori, il direttore di gara rispose: “State vincendo 3-0 e protestate? Pensate a finire la partita, ormai avete vinto”. Ma il calcio sa essere sorprendente quando meno te l’aspetti. Basta ricordare, soprattutto ad un milanista, il tracollo del diavolo contro il Liverpool nella finale di Coppa dei Campioni del 2005. La Capo Passero, con tanti giovani under 18 in campo, tentò il tutto per tutto. I gemelli Marcello e Massimo Vassalli cominciarono a galoppare sulle fasce laterali, Sebastiano ed Enzo Curcio murarono la retroguardia con le buone e, spesso, con le cattive maniere. Peppe Campisi (detto Ponente perché correva quanto il vento) e Alessandro Giuliano, elemento dai piedi buoni e dal carattere fumantino, suonarono la carica, spinti dalla ritrovata vena di alcuni innesti pachinesi in campo. La musica in campo cambiò repentinamente. Di colpo, gli oppressi alzarono la testa, non avendo più nulla da perdere. E se il gol del 3-1 sembrò lo scatto d’orgoglio della squadra umiliata, il raddoppio riaprì la contesa. La sicumera del Portopalo diventò ansia. Sugli spalti, i tifosi tornarono a seguire con grande emozione le residue fasi dell’incontro. La squadra che inseguiva trovò energie incredibili mentre l’inseguita, sentendo il fiato sul collo degli avversari, dopo essersi illusa di aver già vinto la partita, rimase quasi paralizzata.
Il gol del pareggio fu rocambolesco, degna conclusione di un derby al fulmicotone. Direttamente dalla bandierina del calcio d’angolo, Sebastiano Curcio dipinse una traiettoria avvelenata che beffò Cartone, il portiere avversario. Il pallone, dopo aver superato una giungla di gambe, si collocò in fondo alla rete, lemme lemme, nel modo più beffardo. Fu il gol del clamoroso 3-3, tra l’entusiasmo in panchina e in tribuna di giocatori, dirigenti e tifosi della Capo Passero mentre sull’altro versante rimaneva solo la voglia di recriminare per una vittoria buttata letteralmente al vento. L’autore del pareggio sorrise di gusto. Curcio riusciva a ridere anche quando la sua squadra prendeva gol, per sdrammatizzare. Questa volta esultava per una rete che cancellava dalla prima storica stracittadina vincitori e vinti. Sulla panchina del Portopalo, qualcuno ripensò all’episodio del rigore non concesso sul 3-0 e corse ad urlare in faccia all’arbitro frasi irripetibili, riferite alla reputazione della madre e della moglie della giacchetta nera. Per l’intera settimana e per molti anni ancora, a Portopalo non si parlò che di quel derby, della girandola di emozioni, del rammarico e dell’esaltazione, della gioia e dell’amarezza, in un vortice di emozioni che solo il calcio riesce a dare, a San Siro e al Bernabeu come al Brancati. La stracittadina mantenne fede alle attese: una partita imprevedibile e capace di sfuggire a qualsiasi pronostico. In una manciata di minuti tutto si era rovesciato.
La durata della Capo Passero in terza categoria fu breve, come una storia d’amore adolescenziale cominciata ad inizio estate e finita prima del ritorno tra i banchi di scuola. L’ultimo anno dei gialloneri, prima della fusione obbligata, fu all’insegna dei giovanissimi. In rosa vennero inseriti alcuni under 16, giudicati già all’altezza della terza categoria: Giovanni Caruso (un mediano dai piedi buoni) e Lorenzo Oliva (portiere che dalle movenze ricordava Toni Schumacher). Trovò spazio persino un under 15: Antonio Giuliano, il fantasista dal grande fiuto del gol. Il terzetto diede nuova linfa alla squadra che quell’anno si tolse parecchie soddisfazioni, battendo compagini più quotate della provincia siracusana. Ogni bella storia, però, ha la sua inevitabile parabola discendente. La giunta comunale di Portopalo, dopo aver promesso contributi economici alle due società ad inizio stagione, si tirò indietro. La fusione fu lo sbocco scelto per contenere i costi. L’alternativa sarebbe stata l’autofinanziamento. I vertici della Capo Passero (a partire dal maresciallo Enzo Giuliano, padre di Antonio e Alessandro) che con tanta abnegazione si erano impegnati sul versante del settore giovanile, furono messi davanti a due opzioni: scegliere un bicchiere di olio di ricino a stomaco vuoto (autofinanziarsi le spese stagionali) oppure bere un sorso d’acqua fresca in una giornata di caldo torrido (la fusione). Fu il canto del cigno anche del settore giovanile. La dirigenza della nuova società calcistica puntò tutto sulla terza categoria, con una squadra dall’età media bassa, grazie ai giovani provenienti dal vivaio della Capo Passero. A parte alcuni buoni piazzamenti, il Portopalo non riuscì mai a vincere il campionato, rimanendo sempre in terza categoria. Il campionato migliore, a metà degli anni 80, fu vanificato da alcune decisioni arbitrali nella fase finale della stagione che tolsero punti preziosi alla squadra. Il ciclo era ormai alla fine e con un’organizzazione societaria lasciata sempre più all’iniziativa del singolo dirigente: chi voleva allenarsi lo faceva autonomamente e senza stimoli né programmazione. Per il calcio portopalese fu l’inizio di un lunghissimo letargo, durato più di vent’anni. Ma quel primo derby emozionante, sembrato uscire dalle pagine di un racconto di Osvaldo Soriano, lo ricordano ancora in tanti. Fa parte dell’epica calcistica portopalese.
Portopalo oggi ha un campo di calcio costato 1,2 milioni di euro di soldi pubblici, senza tribune e con una disponibilità idrica negli spogliatoi che a volte non basta a soddisfare le esigenze delle due squadre. Chi vuole evitare di rimanere in piedi per assistere alla partita ha una sola alternativa: portarsi sedie e sgabelli da casa. Un terreno di gioco triste, solitario y final.
Testo di Sergio Taccone, autore del libro “Il Milan del Grenoli” (Assist Edizioni, prefazione di Luigi La Rocca, 2020)