La fuga e una carriera bruciata
Giu 26, 2023

Scappò una sera, alla chetichella, salendo a Roma su una lussuosa “Dilambda” e poi a Santa Margherita Ligure sul treno per la Francia, sparendo all’orizzonte come un eroe rapito dal destino. E la Roma, la prima Roma veramente da scudetto, dovette rinfoderare i sogni di gloria. Enrico Guaita bruciò la sua giovane leggenda con la fuga che lo fece sparire dalla scena del calcio italiano e di conseguenza mondiale, ma nella breve parentesi della sua carriera era stato grande, forse il più grande cannoniere della storia della Roma. Appartiene a Guaita un record straordinario, 28 reti in 29 partite, quando fu capocannoniere nel 1934-‘35, col primato tuttora imbattuto di gol nei campionati a sedici squadre (media: 0,965). La fuga poi cancellò tutto e la Roma, praticamente senza attaccanti validi, finì seconda a un solo punto dallo scudetto del Bologna. La Roma leggendaria del Testaccio con Guaita in attacco avrebbe vinto il campionato a mani basse.

Enrico Guaita era nato a Nogaya, nei sobborghi di Buenos Aires, il 15 luglio 1910 (l’11, secondo alcune biografie). La famiglia non navigava nell’oro, il padre aveva accarezzato il sogno del pallone ma non era andato oltre le riserve del Racing Avellaneda. Enrico invece aveva talento puro, lo si notava al primo colpo. A notarlo per primo fu un tale Rattini, che lo consigliò all’Estudiantes La Plata, dove Guaita entrò nell’anticamera delle giovanili e quasi subito si vide aprire le porte della prima squadra. Il suo esordio fu esplosivo: non aveva ancora diciotto anni, il 12 aprile 1928, quando segnò tre gol All’Independiente, lasciando il suo sigillo sul 4-4 finale. Presto quell’ala rapidissima dal tiro maligno venne convocata in Nazionale, dove avrebbe giocato quattordici partite. Qualche anno più tardi un suo compatriota, Nicola Lombardo, reduce da tre stagioni nella Roma senza infamia né lode, si vide affidare dall’ambizioso presidente giallorosso Renato Sacerdoti l’incarico di fare shopping in patria per suo conto.

Uomo-copertina

Era il marzo 1933, Sacerdoti coltivava idee di grandezza, Lombardo garantiva dal rischio (altissimo) di incappare in clamorosi bidoni. L’incaricato salpò il 27 aprile per l’Argentina, dove il suo compito risultò tutt’altro che semplice. Conosciuto il motivo del suo viaggio, i tifosi lo minacciarono pesantemente, promettendogli “botte da orbi” se non se ne fosse tornato prontamente in Italia, rinunciando a saccheggiare il vivaio di quel Paese. Lombardo era un duro, le pressioni lo spronarono ad agire. Visionò l’Estudiantes La Plata e rimase a bocca aperta per le combinazioni offensive tra gli attaccanti Guaita e Scopelli. I dirigenti fecero un po’ di resistenza, poi cedettero i due gioielli. Cui si aggiunse il centromediano Stagnaro, scovato nel Racing.

La notizia dello sbarco nel porto di Ge­nova dei tre assi d’oltreoceano si sparse rapidamente a Roma e alle 6 del mattino del 1 maggio all’arrivo alla stazione Termini i tre vennero immortalati dai fotografi tra la folla entusiasta. L’esordio avvenne un mese e mezzo dopo, al Testaccio, in un’amichevole col Bayern, superato 4-3: curiosamente, si affermarono subito Stagnaro (che poi avrebbe ampiamente deluso) e Scopelli, autore di una magistrale rete, mentre sembrò macchinoso e goffo Guaita. L’arrivo degli argentini aveva creato invidie e malumori nel calcio italiano. Nacquero polemiche, qualcuno mise in dubbio, senza fortuna, i loro ascendenti italiani e il Livorno tentò di far valere addirittura un diritto di prelazione sui tre. Poi, la tempesta si placò, ma non l’ondata critica nei confronti di Guaita. Che, però, era tutt’altro che un bidone come sostenevano i soliti sapientoni. Cominciò a rispondere, una volta ambientatosi, dal 10 settem­bre 1933, data dell’esordio in campionato. Giocava all’ala, era rapido, imprevedibile, con un tiro perfido e pronto. La sua leggenda decollò il 24 settembre 1933, quando la Roma sconfisse la Fiorentina a domicilio per 3-1 e Guaita realizzò due gol mandando in visibilio il pubblico. La domenica dopo era già “il corsaro nero”, l’idolo della folla testaccina.

Enrique Guaita, con la maglia della Roma, si appresta a tirare con il sinistro

È allora, cioè subito, che lo adocchia Vittorio Pozzo, Ct della Nazionale azzurra. Per le leggi dell’epoca non sono un problema le quattordici presenze nella Nazionale argentina. Gli “oriundi” sono equiparati agli italiani, devono espletare gli obblighi di leva e possono rappresentare l’Italia con la maglia azzurra. Guaita viene inserito nel gruppo l’11 febbraio 1934, a Torino contro l’Austria che vince 4-2. I due gol dell’ala sinistra Guaita sono il sigillo dell’ennesima scelta azzeccata. L’oriundo segna 14 gol con la maglia della Roma nel campionato 1933-‘34, poi è Campione del mondo, tra i migliori dell’avventura azzurra sui campi di casa.

È lui a segnare il discusso gol che spazza via il “Wunderteam” austriaco e ci spalanca le porte della finale. Qui, un’idea geniale di Pozzo nel finale della gara contro la Cecoslovacchia, col risultato fermo sulla parità, produce lo spostamento tra l’affaticato centravanti Schiavio e l’ala Guaita, che dopo pochi minuti riceve da Ferraris IV, lascia sul posto un avversario e porge la sfera all’accorrente Schiavio, abile a infilare da una decina di metri il gol del successo: 2-1.

Il momento d’oro di Guaita è appena cominciato. Finito il Mondiale, si aggrega a suon di gol a una tournée internazionale della Roma e il campionato successivo ne decreta la formidabile forza. L’attaccante ha potenza e coraggio e un attaccamento ai colori che diventa proverbiale. Combatte tra i “leoni di Highbury” il 14 novembre 1934, nell’epica sconfitta azzurra contro gli inglesi, ritornando a casa con una dolorosa contusione. La Roma, che deve affrontare l’Ambrosiana, parte per Milano senza di lui.

Un’immagine di Guaita scattata negli anni ’30

Un’assenza grave. Senonché il sabato il “leone” reduce da Londra si fa fare un paio di iniezioni antidolorifiche e parte dalla stazione Termini con l’ “Espresso della notte”. L’indomani, con un proiettile che incenerisce il portiere Ceresoli, Guaita regala alla Roma il successo in trasferta. E la sua leggenda si alimenta. Non molto alto, tozzo ma agile, dotato di uno spirito aggressivo che lo porta ad irresistibili incursioni nell’area avversaria, diventa l’incubo dei portieri italiani. L’allenatore Barbesino ha avuto l’intuizione di spostarlo a centravanti, il ruolo ideale per la sua irruenza di ricercatore di spazi, per il suo senso innato per l’azione in verticale, e lui risponde a suon di gol. La Roma chiude il torneo al quarto posto, Guaita è capocannoniere con 28 reti, primato per i tornei a sedici squadre. Finito il campionato, la squadra gioca la Mitropa Cup, ma esce per mano del Ferencváros. Poco male, la stagione si chiude e sono già arrivati il terzino Monzeglio e l’ala Cattaneo per quella successiva. A loro nel corso del mercato estivo si aggiunge Allemandi, che va a ricostituire la fortissima coppia di terzini dell’Italia mondiale. La Roma vanta una rosa completa ed è la grande favorita per il titolo 1936. A quel punto, però, l’imprevedibile accade.

Guaita realizza la rete della vittoria italiana nella semifinale contro l’Austria

Il 19 settembre 1935 i tre “oriundi” della Roma, Guaita, Scopelli e Stagnaro, sostengono la visita di leva presso la caserma di via Paolina. Ne escono abili e arruolati nel corpo dei Bersaglieri. In testa hanno idee strane, forse (il dubbio non sarà mai fugato) suggerite da chi non vede di buon occhio la forza straripante della nuova Roma. Sono giorni convulsi, i giornali battono la grancassa della “questione etiopica”, che l’Italia si appresta a risolvere con un’operazione militare in Africa. I tre escono di caserma e si infilano nel taxi dove li aspetta il direttore sportivo romanista Biancone. Stagnaro, il più fragile dei tre (e il più modesto come calciatore) avvia la discussione: “Senta, cavaliere, è sicuro che rimarremo a Roma?”. “Certamente, come tutti gli altri calciatori romani”. “Non ci manderanno in Africa?”. “State tranquilli, l’Italia se la caverà anche senza di voi”. “Vede, non abbiamo nulla in contrario a prestare il servizio militare in Italia, però vorremmo consultarci con il consolato argentino. Magari potrebbero indicarci il sistema per non andare sotto le armi”. Biancone annuisce e lascia i tre al consolato argentino, a poche centinaia di metri dalla caserma, raccomandando la puntualità per l’allenamento del pomeriggio al Testaccio. Poche ore dopo però al campo nessuno li vede.

L’allenatore Barbesino non si preoccupa, il console li avrà trattenuti. La sorpresa, mista a incredulità, arriva la sera, con la telefonata di un tifoso alla sede della Roma: “Lo sapete? Guaita, Scopelli e Stagnaro sono scappati”. “E dove?”. “Li ho visti salire con moglie e valigie su una grossa auto e poi sparire”. La situazione in società è confusa. Sacerdoti, ebreo, ha dato le dimissioni qualche mese prima, il suo posto è occupato da Vittorio Scialoja, che ascolta impietrito. Il giorno prima ha accondisceso alla richiesta di Guaita: 10 mila lire al mese di ingaggio, un record. E ora il campione è sparito. Si pensa a una marachella, strana in un giocatore così serio. Solo il giorno dopo partono le ricerche, troppo tardi. Si accerta che la Dilambda dei fuggiaschi è stata avvistata a La Spezia, che poi i tre sono saliti a Santa Margherita Ligure sul treno per Ventimiglia. Hanno passato il confine di notte e dalla Francia sono salpati per il Sudamerica. Tutto per l’infondata paura di dover partire per l’Africa, come se non godessero dei privilegi dei calciatori. Subito i tre “traditori” vengono additati al pubblico ludibrio. Il “Littoriale” poche settimane prima aveva così inneggiato a Guaita: “E il centravanti della nuova ge­nerazione, un fuoriclasse”. Ora spara: “Di pecore travestite da leoni domenicali non abbiamo bisogno, né crediamo opportuno continuare a nutrire serpi in seno. Siam contenti di questo gesto come di una liberazione”.

Per prevenire eventuali ritorni, i tre vengono accusati di traffico illecito di valuta, coinvolgendo anche il povero Sacerdoti, che se ne ritroverà condannato al confino. Due giorni dopo, il nuovo campionato comincia. La Roma, mutilata, resiste col suo spirito del Testaccio e nel girone di ritorno l’allenatore Barbesino fa esordire a centravanti un ventenne, Dante Di Benedetti, alla fine capocannoniere della squadra con 7 reti. Nonostante tutto, la Roma insidia il primato del Bologna, finendo a un solo punto di distacco. Guaita si era giocato la carriera. Sbarcato in patria, trovò un ingaggio nel Racing, ma dopo due stagioni, subissato di critiche da una corrente violentemente contraria forse anche per il suo precedente, abbandonò anzitempo il calcio. Divenne direttore del penitenziario di Bahia Bianca, si ammalò, perse il posto e morì povero, ospitato da amici, il 18 maggio 1959, ad appena 49 anni.

Vittorio Pozzo

Vittorio Pozzo, che non dimenticava i suoi pupilli, lo commemorò così sul “Calcio e Ciclismo Illustrato”:Era un ambidestro di valore e sotto a rete era un opportunista della più bell’acqua: aveva il fiuto dell’occasione da rete, e sull’occasione stessa egli, colla sua notevolissima punta di velocità e col gran coraggio che lo contraddistingueva, piombava come un falco. Fu a luì che io mi rivolsi, nella finale del ‘34 contro la Cecoslovacchia a Roma, per ordinare quel ripetuto cambiamento di posto con Angiolino Schiavio, che doveva portare il bolognese a darci la vittoria. L’ultima volta che ero stato a Buenos Aires, lo avevo cercato, e lo avevo invitato ad una cena che volevo offrire a lui, a Monti, a Demaria, a Cesarini (Orsi era troppo lontano). Mi rispose ringraziando vivamente, ma dichiarandosi dolente di non potersi muovere da Bahia Bianca, dove si trovava. Gli è che, in quel periodo, i moti politici dell’ Argentina gli avevano fatto perdere il posto di direttore delle carceri a Bahia, e la sua salute cominciava a tentennare. Era un ragazzo colto e istruito, serio, ordinato e disciplinato. Raramente una persona più corretta militò nella Nazionale italiana. È stata una delle cose che io rimprovero a me stesso: di essergli andato così vicino, nel mio ultimo viaggio in Sud America, e di non aver compiuto il breve tragitto, da Buenos Aires a Bahia Bianca, per andarlo a visitare. Resta per me nel cuore, in maglia azzurra e pieno di sentimenti nostri”.

Fonte: “Storie di Calcio”

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