È il gennaio del 2000, il calcio italiano è il più ricco e il più bello del mondo, e gli occhi di tutti sono puntati sui campi della Serie A. Nelle curve degli stadi compaiono però sempre più spesso striscioni xenofobi e ostili, accompagnati da bandiere con croci celtiche, ma è forse ancora più inquietante un messaggio della Curva Nord della Lazio durante una partita con il Bari: “Onore alla tigre Arkan”.
Moltissimi non capiscono, altri si indignano. È il caso di Alen Boksic, all’epoca attaccante biancoceleste e croato di nascita, che si sfoga sulle pagine de La Repubblica: “Sto male, molto male. Sono amareggiato e deluso anche perché quella scritta viene dai miei tifosi. Hanno reso onore a quello che tutto il mondo considera un criminale di guerra contro il mio popolo. Davvero non si rendono conto di quello che fanno”.
Le voci di corridoio assicurano però che a volere quello striscione sia stato un compagno di squadra di Boksic, il serbo (di madre croata) Siniša Mihajlović ora allenatore del Bologna, che anni dopo ha spiegato le sue motivazioni al Corriere della Sera: “Lo rifarei, perché Arkan era un mio amico: lui è stato un eroe per il popolo serbo. Era un mio amico vero, era il capo degli ultras della Stella Rossa quando io giocavo lì. Io gli amici non li tradisco né li rinnego. Conosco tanta gente, anche mafiosi, ma non per questo io sono così. Rifarei il suo necrologio e tutti quelli che ho fatto per altri”.
La Tigre Arkan, nome di battaglia di Željko Ražnatović, trova la morte il 15 gennaio 2000 in un agguato avvenuto in un albergo di Belgrado, dopo essere stato uno dei più cruenti protagonisti delle guerre jugoslave del decennio precedente.
Da sempre grande appassionato di calcio, Arkan è il leader del gruppo ultras più violento della curva della Stella Rossa Belgrado negli anni del conflitto iniziato nel 1991: Ražnatović è noto ai corpi di Polizia di tutta Europa, per aver imperversato tra Italia, Germania, Olanda e Belgio con rapine ed esecuzioni (anche su commissione dei servizi segreti della Jugoslavia di Tito) tra gli anni 70 e 80.
Una volta tornato in patria diventa uno dei principali protagonisti della guerra civile, e sugli spalti del Marakanà organizza una spietata milizia di supporto a Slobodan Milošević, presidente della Serbia e della Repubblica Federale di Jugoslavia che troverà la morte a L’Aja durante il processo a suo carico per crimini contro l’umanità. Arkan e le sue Tigri seminano il terrore da vero braccio armato dell’espansionismo della Grande Serbia: i circa tremila volontari reclutati tra la curva dello stadio e le carceri belgradesi si rendono protagonisti di migliaia di uccisioni, e il potere del loro leader cresce a dismisura nel corso di quei tragici anni.
Al termine dei conflitti, nel 1995, Arkan è uno degli uomini più ricchi e potenti della Serbia, sebbene ufficialmente sia solo il titolare di una pasticceria. Ma oltre che un amante dei dolci, un criminale e un nazionalista Ražnatović è da sempre un grande calciofilo.
La sua ambizione e la sua passione per il pallone lo portano ad aspirare a diventare protagonista in prima persona del calcio del suo Paese: sfumati i tentativi di prendere possesso della “sua” Stella Rossa, diventa presidente del FK Obilić, squadra di Belgrado dal passato tutt’altro che glorioso.
Ma avere come proprietario il capo delle Tigri in un’epoca come quella può essere decisamente rilevante, e la storia dei gialloblu lo dimostra: dopo decenni nell’anonimato, nonostante la squadra non sia assolutamente al livello delle big, l’Obilic diventa una delle realtà di punta del calcio serbo.
Le minacce per nulla velate cui vengono sottoposti arbitri e giocatori avversari, con la leggenda che parla anche di gas sedativi negli spogliatoi degli avversari e altre amenità del genere, consentono quello che da altre parti, ma non certo nella Serbia degli anni 90, sarebbe considerato un miracolo calcistico: in un battibaleno arrivano la promozione nella massima serie, il primo scudetto della storia del club (che interrompe un dominio di Partizan e Stella Rossa durato 27 stagioni consecutive) e la partecipazione ai preliminari di Champions League, il tutto facilitato certamente dalla costante e minacciosa presenza di Arkan in panchina.
A eliminare i Cavalieri dalla massima competizione europea è il Bayern Monaco, dopo che Arkan ha lasciato la presidenza del club alla moglie Svetlana, cantante celeberrima in Serbia, a causa delle pressioni della Uefa che lo portano anche a progettare l’omicidio dell’allora presidente Johansson prima di rinunciare a causa della mancanza di occasioni concrete.
I bavaresi si impongono con facilità in casa, anche grazie alla forzata assenza di Arkan che non può recarsi in Germania a causa di una taglia sulla sua testa risalente alle “avventure” di gioventù da quelle parti, eliminando la squadra balcanica e costringendola alla Coppa Uefa nella quale è l’Atletico Madrid di Arrigo Sacchi a mettere la parola fine alla campagna estera della compagine del crudele comandante serbo.
Poco dopo la parabola di Arkan si conclude a colpi di arma da fuoco, con la stessa violenza che ha caratterizzato tutto il suo percorso di vita.
E che ha avuto un ruolo non certo marginale nel suo sogno di realizzare un’utopia calcistica che sarebbe meglio cancellare. Necrologi e onori postumi compresi.