Vissuto tra le fabbriche in una casa a pochi metri dalla porta dello Stade de la Frontière, «la mia porta», René era destinato naturalmente alla condizione inevitabile che ogni abitante della Hoehl appassionato di calcio poteva imma- ginare. L’acciaieria e la maglia bianconera gli toccavano di diritto perché René aveva braccia forti per essere un operaio e il buon talento di portiere lo risucchiò nella Jeunesse, il mito di chiunque desiderasse battersi su un campo di pallone. Nel 1959 il Real Madrid lo corteggiò inaspettatamente e René ne era elettrizzato. In Spagna ci sarebbe andato volentieri «ma avevo diciassette anni e ne servivano almeno ventuno». L’età complicò tutto perché René era ancora minorenne, ma in verità la faccenda non si mise male per questo; si chiuse piuttosto nel solo modo in cui poteva chiudersi. Chiamato a decidere per lui come genitore, tutore e soprattutto tifoso della Jeunesse e componente del comitato direttivo del club, il papà liquidò la pratica sbrigativamente prima ancora che René potesse azzardare un’ipotesi diversa o seguitare a sognare un’impennata fantastica alla sua carriera di portiere giovane e promettente.
Il sogno, accarezzato e archiviato in un solo momento, l’aveva propiziato una giornata vissuta al Santiago Bernabeu, lo stadio di Madrid, 59.447 spettatori tutti insieme, dieci volte di più di quanti ne avesse visti nel suo Stade de la Frontière. Quel 21 ottobre 1959, mercoledì, avrebbe potuto cambiargli la vita per sempre, dandogli la possibilità di lanciarsi nell’orbita del calcio europeo. René lo capì quando gli avversari lo salutarono con calore e furono prodighi di strette di mano, sorrisi e complimenti. Fu una giornata straordinaria ma successe tutto e niente. Nonostante fosse irresistibile la tentazione di cambiarla radicalmente, la sua vita non si spostò di un centimetro. Dopo l’illusione della gloria europea, René rimase a godersi la gloria casalinga nella terra tra le fabbriche, sul campo della Jeunesse, soprattutto «tra i pali della mia porta distante cinque metri da casa mia».
Inutile pensarci adesso, sono passati quasi sessantadue anni. René Hoffman poteva diventare un portiere famoso, è vero. Però andò nell’unico modo possibile in quel mondo ormai lontanissimo in cui il romanticismo della squadra del cuore riusciva perfino a reprimere l’ambizione di un ragazzo a guardare più in alto. Perché non c’era niente di più alto della tua squadra, della tua porta, della tua vita tra il ferro e il pallone. René era nato nella Hoehl, abitava accanto allo stadio sul filo della frontiera francese, era metalmeccanico, bianconero e non aveva ventuno anni. Tutto qui. A quindici anni era entrato in fabbrica, nell’acciaieria dell’Arbed, e casualmente, a diciassette, al Santiago Bernabeu. Il portiere titolare Paul Steffen s’era rotto un dito e l’allenatore inglese Bill Berry mandò lui in campo contro la squadra più forte del mondo, dopo avergli regalato tre giorni prima l’esordio nel campionato lussemburghese contro lo Schifflange. Superato il primo turno battendo i polacchi del Lodz in casa per cinque a zero e perso due a uno in trasferta, i bianconeri erano di fronte a un mito del calcio. Il 21 ottobre 1959, mercoledì, secondo turno di Coppa dei Campioni, il sorteggio aveva messo i campioni della Jeunesse d’Esch, cinque scudetti e quattro Coppe nazionali, contro i campioni di Spagna, sei titoli nazionali, sette coppe di Spagna, tre Coppe dei Campioni. Entrambe squadre di primo piano erano, Jeunesse e Real, ma ciascuna nel loro mondo. La sproporzione tra i grandi del piccolo Lussemburgo e i grandi del calcio europeo rendeva il confronto inutile, platonico, superfluo. Eppure l’impresa impossibile entusiasmava René. Paul Steffen fu affettuoso. «Lo ricordo. Mi disse buona fortuna, ragazzo, fai del tuo meglio». Non poteva dirgli di più.
Come nel dialogo scanzonato tra Mario Morocutti e Willi Macho prima della partita con il Liverpool di quattordici anni dopo («quanti gol prenderemo?» «Mah, sei, sette»), Steffen sapeva benissimo che cosa aspettasse la Jeunesse e pertanto largheggiò in rassicurazioni; perché non poteva andare peggio di quanto l’immaginazione e i valori delle due squadre suggerissero. René non aveva niente da perdere, nessuno l’avrebbe mai rimproverato per un gol in più o una parata sbagliata. Era già scritto: la Jeunesse avrebbe perso, il Real Madrid avrebbe vinto. Punto. Quando Hoffman osservò da vicino i fuoriclasse di cui tutto il mondo parlava – Di Stéfano, Puskás, Santamaria, Zarraga, Gento – gli sembrò d’essere atterrato in un’altra dimensione. Seducente e bellissimo, il Bernabeu pareva una gigantesca astronave. Gli caddero addosso gli sguardi di 59.447 spettatori. I loro occhi guardavano la sua porta perché quella, la porta della Jeunesse, avrebbero dovuto bombardare i blancos, gli attaccanti del Real, bersagliandola di tiri, colpi di testa, calci di punizione. Era come se 59.447 spettatori non aspettassero che di vedere la palla dentro la porta difesa da quel ragazzino, il più giovane dei ventidue in campo, diciassette anni contro i trentatré di don Alfredo Di Stéfano, argentino simbolo di un calcio capace di fare tutto – difendere, costruire, segnare – e i trentadue di René Pascucci, il saggio capitano in grado di tenere tutti i suoi compagni teneramente al guinzaglio dentro il campo e fuori, incalzandoli con consigli da fratello maggiore.
Se gli tremarono le gambe, com’è assai probabile, però non l’ammetterebbe mai («ero drogato dalla tensione, ma no, non ebbi mai veramente paura»), Hoffman provò un’emozione inedita, indescrivibile quando si piazzò al centro della porta del Bernabeu. Cominciò a saltellare finché l’arbitro italiano Giulio Campanati diede il via. Di fronte a lui e ai suoi compagni – Albert Schaack, Wladislaw Janik, Raymond Ruffini, Jules Meurisse, Paul May, Ernest Jann, René Pascucci, Victor Heinen, Raymond Denis, Mar- cel Theis – c’era il grande Real Madrid detentore della Coppa dei Campioni vinta per tre anni consecutivi, squadra imbattibile e piena di fuoriclasse. Palleggiavano come nessun altro, era un piacere guardarli da tifosi quanto da avversari. Nei primi ventiquattro minuti la palla non su- però mai la linea di porta della Jeunesse d’Esch. Il ragazzino René Hoffman resse per più di metà primo tempo. Un minuto dopo «Puskás calciò da venticinque metri, io non riuscii a trattenere la palla. Di Stéfano raccolse il rimbalzo di testa. La palla si infilò alla mia destra, a mezza altezza. Provai ad arrivarci…». Ecco, erano trascorsi venticinque lunghi minuti, i blancos di Alfredo Di Stéfano e Ferenc Puskás avevano messo a segno il primo punto e gli spettatori del Santiago Bernabeu, cioè ventuno stadi della Jeunesse messi insieme, avevano cominciato a leccarsi i baffi. «Adesso comincia, pensai…». Era bello avere resistito ventiquattro minuti nello stadio sterminato del Real affollato solo per i due terzi della capienza, ma sì, adesso cominciava. Al trentaquattresimo minuto segnò Puskás, al quarantreesimo Jesùs Herrera, sicché il primo tempo si chiuse sul tre a zero – solo tre a zero – grazie al ragazzino René Hoffman, ai suoi voli tra i pali del Santiago Bernabeu. Nel secondo tempo, all’ottavo minuto, fu il turno di Enrique Mateos, quattro a zero; poi ancora Puskás al diciassettesimo, ancora Jesus Herrera al trentaduesimo. Sarebbe finita sei a zero senza l’ultimo gol di Puskás al minuto trentotto. Il tiro al bersaglio finì così. Sette a zero. Un gol per Di Stéfano e Mateos, due per Herrera, tre per Ferenc Puskás, il fuoriclasse ungherese dotato di un tiro irresistibile. Il sette a zero non fu una punizione severa perché «poteva finire quindici a zero» se René non si fosse scatenato tra i pali ricevendo alla fine l’applauso di quel pubblico che inizialmente l’aveva intimorito, l’elogio dei vincitori, qualche pacca sulla spalla e in premio il pallone della partita. «Sei bravo, ragazzo».
Contro ogni legge del calcio e della logica, René diventò l’eroe del Santiago Bernabeu nel giorno della sconfitta. L’avrebbero voluto in Spagna – e gli emissari del Real lo cercarono per questo – offrendogli il privilegio di sei mesi di prova perché un giovane in gamba faceva comodo anche a uno squadrone simile. «Ma non potevo decidere io, mi sarebbero serviti i ventuno anni della maggiore età e ne avevo solo diciassette». René poteva entrare nella squadra di don Alfredo Di Stéfano, uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi e – secondo alcuni – più grande di Pelè e Maradona, ma per decisione paterna rinunciò al Real Madrid e rimase a casa nella squadra della sua terra. Perché era ovvio, a quei tempi: chi aveva indosso la maglia bianconera doveva tenerla per sempre, chi giocava nella squadra degli operai, dei metalmeccanici, dei minatori, nel quartiere degli italiani e degli immigrati, al di qua della linea ferroviaria diretta in Francia, non poteva separarsene e doveva andarne orgoglioso.
Era quella la vita: la fabbrica e il pallone. Nel 1957 René era entrato per la prima volta nello stabilimento siderurgico Arbed, il 21 ottobre 1959 esordì in Coppa dei Campioni con la maglia bianconera della Jeunesse, la sua seconda partita in prima squadra. Quella giornata memorabile avrebbe cambiato per sempre la sua vita – René Hoffman, il ragazzino che aveva tentato di fermare il grande Real Madrid – lasciandola ferma nello stesso punto in cui era cominciata. Cioè allo Stade de la Frontière, nella Hoehl punteggiata di comignoli affumicati, fabbriche e miniere, dove le case si confondevano con l’asfalto, l’asfalto con il cielo e con il pallone. «Perché le due cose erano in realtà una cosa sola» sorride René. «L’Arbed era la vita. La Jeunesse anche. L’altra vita…».
Bibliografia: Tonio Attino, Il pallone e la miniera (Kurumuny), 2018