Aveva un buco dentro, all’altezza del cuore, giusto dove stanno gli scudetti sulle maglie. Certe volte ci cuciva sopra qualche gol, ma non bastava ad alleggerirgli la pena. Il centravanti triste Mario Jardel soffriva di depressione.
Entrava e usciva dalle cliniche con la stessa abitudine alla noia con cui entrava nelle aree di rigore avversarie, con lo stesso grigio senso del dovere e la stessa stanchezza che si portava addosso da una vita. Era un brasiliano senza luce e senza allegria.
Arrivò in Italia a trent’anni, nel gennaio del 2004, dopo molti gol e molti ricoveri: sembrava la fotocopia in bianco e nero del goleador che era stato un tempo.
Lo prese l’Ancona dagli inglesi del Bolton per 650.000 euro. L’anno dopo l’Ancona Calcio fallì, anche per colpa di investimenti sbagliati come quello di Jardel, ma questa è un’altra storia.
Il giorno della presentazione annunciò: “Ci salveremo e resterò qui a lungo”. Era domenica 18 gennaio 2004, giorno di Ancona-Perugia. Jardel venne presentato allo stadio “Del Conero”, ma nell’andare a salutare i suo nuovi tifosi, sbagliò curva e si beccò gli insulti dei tifosi umbri. Colpa dei comuni colori biancorossi, che ne sapeva lui.
La situazione era però già compromessa, l’Ancona retrocesse ben prima del verdetto finale, Jardel rimase in Italia un paio di mesi. Con la maglia dell’Ancona scese in campo tre volte per 203 minuti totali.
Era pesante e goffo, poco allenato e svogliato. Quindici chili prima aveva vinto due volte la Scarpa d’Oro come miglior marcatore d’Europa, con il Porto e lo Sporting si era laureato per cinque volte capocannoniere in Portogallo. Nel suo score figuravano più di duecento gol e più di duecento esultanze tutte uguali. Il braccio alzato, la faccia spenta, lo sguardo lontano, il fastidio per i compagni che corrono ad abbracciarlo: “Mario, ma goditela almeno oggi, no?”.
Forse pensava alla moglie Karen Matzenbacher e ai due figli che si era portata via quando gli aveva detto: “Mario, io divorzio”. Forse pensava alla cocaina, di cui divenne schiavo. Forse pensava alla sua infanzia infelice a Fortaleza, quando faticava a mettere insieme le parole e i pensieri, quando gli riuscivano meglio i dribbling dei discorsi. Forse pensava a quella volta che dopo un gol gli chiesero: Mario, cosa provi? E lui: “Sono stanco di soffrire”.
Il centravanti triste Mario Jardel aveva un buco nero all’altezza del cuore, e non bastarono centinaia di gol per riempirlo.
Furio Zara