La gente che vive ad est del Rio de La Plata da sempre è conosciuta come “oriental”. Da una parte l’Argentina, dall’altra l’Uruguay, gli “oriental” appunto. Due paesi divisi da una forte rivalità: politica, economica e a quelle latitudini, soprattutto, calcistica. Le prime due edizioni della Coppa America (primo trofeo riservato a rappresentative nazionali) hanno visto “gli uni contro gli altri armati” e anche se non c’era una vera e propria finale la scuola calcistica uruguaiana ha prevalso su quella argentina. Sarà un caso, ma anche il primo mondiale della storia, giocato in Uruguay, è stato vinto dai padroni di casa battendo in finale l’Argentina di Stabile (capocannoniere della manifestazione) per 4-2. Insomma, a quel tempo era l’Uruguay a sfornare i migliori talenti calcistici che sapevano esaltare il metodo con l’esuberanza atletica e la classe cristallina.
Andrade è stato uno dei grandi protagonisti di quell’epoca, lui che con la Nazionale ha vinto due Olimpiadi, un Mondiale e due Coppe America. Illuminante è ciò che accadde alle Olimpiadi di Parigi del 1924. La Jugoslavia doveva incontrare l’Uruguay, come dire due mondi distanti anni luce, così gli slavi mandarono degli osservatori all’allenamento della Celeste. I giocatori sudamericani accortisi di essere spiati iniziarono a svirgolare facili palloni e a inciampare, apparendo ridicoli. La relazione fu superficiale e la partita finì 7-0 per l’Uruguay, per la Jugoslavia un’incredibile lezione di calcio e di vita. Sempre a Parigi, i giornalisti erano incantati dai dribbling di José Leandro Andrade, difensore di rara efficacia e classe da permettersi di interrompere l’azione avversaria e rilanciare la propria con grande sicurezza.
Durante un allenamento i rappresentanti della carta stampata chiesero ad Andrade quale era il segreto del dribbling uruguaiano, così spettacolare e mai fine a se stesso, il ragazzo di Montevideo rispose che lui e i suoi compagni si allenavano rincorrendo galline… il giorno dopo la notizia, falsa, era su tutti i giornali. Più che la vittoria finale, poterono i virtuosismi dell’uomo d’ebano che in una partita riuscì ad attraversare mezzo campo con il pallone addormentato sulla testa, da allora sarà la “Meraviglia nera”, il primo giocatore che assurse a una popolarità internazionale. Anche lui nella sua carriera da girovago giocò nel Nacional di Montevideo: una delle squadre più famose del Sudamerica nata nel maggio del 1899.
Una storia come tante, gli ultimi anni del secolo, il colonialismo calcistico inglese che imperversava e la voglia di formare una squadra indigena, senza i “johnnies”; così il Montevideo Football Club e l’Uruguay Athletic Club si fondarono nel Nacional che fu creato in casa di Ernesto Caprario, assorbendo da subito l’animo studentesco, ribelle e razionale allo stesso tempo, il cui grido di battaglia era: “Abbasso gli inglesi, viva il football criollo“. Una colazione campestre al “pueblito San Antonio” suggellò il tutto. Era nato il Nacional, era nata una delle squadre più amate dagli uruguaiani, l’altra è il Peñarol e quando le due formazioni si incontrano è la partita dell’anno, quella che spesso decide chi vincerà il titolo: aurinegros (Peñarol) contro tricolores (Nacional). Il primo “classico” (il nostro derby) si giocò il 15 luglio 1900, quando gli aurinegros si chiamavano ancora CURCC, squadra dei ferrovieri composta in gran parte da britannici. È subito rivalità, non si risparmiano colpi proibiti e alla fine il Nacional perde 2-0, ma con onore. Il 18 maggio 1902 è la data della prima vittoria dei tricolores nel derby, da allora non si contano più. L’anno successivo proprio il Nacional viene scelto per affrontare in rappresentanza della Liga Uruguaya una selezione argentina. La vittoria per 3-2 scatena la gioia dell’intero Paese.
La figura leggendaria dei primi anni del Novecento è Angel Landoni, studente che vive solo di calcio, giocando partite su partite e cimentandosi in ogni ruolo, portiere compreso, il primo grande idolo dei tifosi tricolores. Il calcio diventa, giorno dopo giorno, sport di massa e molte squadre decidono di accogliere elementi di umili origini sociali, ma di grande spessore calcistico. Il football, nato nelle esclusive scuole inglesi verso la metà del XIX secolo, conosce in Sudamerica (sarà così anche in Brasile e Argentina) il primo vero esproprio proletario. Gli anni Dieci per il Nacional sono gli anni di grandi vittorie, ben sei titoli nazionali vinti, grazie a una formazione indimenticabile, nelle cui file c’erano campioni del calibro di Alfredo Foglino, Francisco e Manuel Varela, Pedro Zibechi, Santiago Demarchi e Abdon Porte.
La cosa incredibile è che di decennio in decennio i tricolores riescono a cambiare senza perdere in forza e autorevolezza, grazie al continuo ricambio di campioni che in quell’epoca il calcio uruguaiano sapeva esprimere. Il Nacional del 1915 con i 3 trofei vinti nella stagione: Tie Cup, Primera División e Copa de Honor Cousenier. Gli anni Venti sono quelli di Carlos e Héctor Scarone, Angel Romano, Antonio Urdinaran, Héctor Castro detto “El Manco” poiché privo di una mano a causa di un incidente di lavoro, Andrés Mazali e Pedro Petrone. Héctor Scarone era la mente, Petrone il braccio armato di quella squadra grazie al fisico imponente e al tiro fulminante; nel 1925 Il Nacional si reca in Europa e gioca 38 partite, ne vince 26, segna 130 reti e ne subisce 30; in Nordamerica vince 16 volte, segnando 78 reti, in 22 partite. Sono, in fondo, gli anni del massimo splendore del football criollo che vince Coppa America, Olimpiade e si laurea campione del mondo nel 1930. La Celeste è la massima espressione del calcio mondiale (fuori del Regno Unito) e il Nacional tra i club più forti, visto che molti suoi giocatori formano l’ossatura della Nazionale. Nel 1932 in Uruguay arriva il professionismo e i tricolores sono una delle società più ricche del Paese. Arrivano giocatori di grande caratura come il brasiliano Domingos da Guia e José Nasazzi, per tutti il capitano. Nato a Montevideo il 24 maggio 1901, il padre italiano e la madre basca da piccolo lo avevano soprannominato “El Terrible”, niente male. Alto più di 1,80 per 85 chili, José giocò all’inizio con la Liga Nacional, una rappresentativa di una lega indipendente. Nel 1920 aveva 19 anni ed era già capitano, né aveva le caratteristiche fisiche, tecniche e morali, ma soprattutto un carisma unico che portava tutti i giocatori, anche i più anziani, a rivolgersi a lui come al leader, alla guida indiscussa, tanto che fu soprannominato “El Mariscal”, il maresciallo.
Difensore insuperabile, soprattutto nel gioco di testa, sapeva rilanciare con classe l’azione diventando alla bisogna centrocampista o attaccante. Nel 1924 la partecipazione alle Olimpiadi arrivò come premio, dopo la conquista della Coppa America. José lavorava come marmista e quando tornò da Parigi, come si era promesso, non impugnò più gli attrezzi del mestiere. Impiegato al Casino Municipal di Montevideo venne aggregato al Nacional, lasciando un segno profondo con i titoli del ’33 e del ’34. Dopo la conquista della Coppa America nel ’37 decise di ritirarsi, tornando al Casino, del quale dopo una brillante carriera fu anche direttore generale. il carisma era sempre lo stesso. José Nasazzi, con la sua classe, con la sua forza e quell’orgoglio tutto uruguaiano, oriental, di chi vive ad est del Rio de La Plata, è morto nel 1968 a causa di un tumore all’esofago: il calcio mondiale perdeva il suo capitano.
Negli anni Trenta militavano nel Nacional anche il centromediano Riccardo Faccio, Pedro Duhart e il solito Petrone, che furono capaci di vincere un derby col Peñarol in nove contro undici per novanta minuti. Quando Faccio partì per Milano, sponda Inter (allora Ambrosiana) il suo posto fu preso da Miguel Andreolo, che potremo definire l’eroe dei due mondi. Come molti uruguaiani, infatti, dopo aver fatto grandi i tricolores e la Celeste si recò in Italia.
Approdò al Bologna con il quale vinse ben tre scudetti, mettendo fine allo strapotere della Juventus di Carcano, e il Campionato del Mondo con la Nazionale di Vittorio Pozzo. Al Nacional dette il meglio di sé con Roberto Porta e l’argentino Attilio Garcia che con i tricolores ha segnato 464 reti in 435 partite, una media spaventosa e ineguagliata. Nei decenni questo continuo ricambio di campioni è continuato senza sosta, anche se non proprio come quelli già citati, il calcio criollo si evolveva, cambiava il panorama internazionale, ma a Montevideo erano sempre Nacional e Peñarol a contendersi il titolo. Gambetta, Walter Gomez, Ciocca e Zapirain sono solo alcuni nomi, il resto è storia. Negli anni Settanta e Ottanta dopo molte affermazioni locali, il Nacional ha conosciuto la ribalta internazionale conquistando ben tre Coppe Libertadores e altrettante Intercontinentali.
Tre i protagonisti indimenticabili e indimenticati di quelle affermazioni: Luis Cubilla, Waldemar Victorino, centravanti di grandi capacità realizzative e il baluardo difensivo Hugo De Léon, forse il più rappresentativo di quell’epoca, di un calcio orgoglioso e tosto come quello uruguaiano, lui capitano come Nasazzi, anche se meno leggendario. Panathinaikos (’71, per rinuncia dell’Ajax), Nottingham Forest (’80) e PSV Eindhoven (’88) le vittime sacrificali. A est del Rio de La Plata vivono gli oriental, sono gente fiera, capace di soffrire e di rialzarsi senza alcun lamento, sono orgogliosi e quando se lo ricordano giocano magnificamente a calcio.
Testo di Francesco Caremani