La rievocazione storica di Thierry Marchand è molto interessante se letta in chiave politica, alla luce delle rivendicazioni dei capitani d’industria: più partite, più soldi, o ce ne andiamo. Marchand scrive che “la nobiltà del calcio europeo è molto simile a quella della corona spagnola. Ci sono i Grandi, quelli che si trovano al vertice della scala gerarchica, godono di un notevole potere finanziario e parlano al re senza problemi. E poi ci sono gli altri, cavalieri o hidalgo che hanno comprato il loro titolo quando il sangue non permetteva loro di accedere a questa società molto chiusa. Da Carlo V a Florentino Pérez sono passati cinquecento anni ma, a ben vedere, poco è cambiato”.
France Football ricorda che fino al 1966, nelle prime undici edizioni, avevano vinto solo quattro squadre: il Real, il Benfica, il Milan e l’Inter. Nel 1981 eravamo arrivati a undici, con Ajax, Bayern e Liverpool che ce l’avevano fatta per tre volte. Tra il 1982 e 1993, cogliendo l’occasione dell’esilio inglese, altre squadre sono riuscite a conquistare la Coppa più ambita.Dal 1992 a oggi sono arrivate in finale due squadre che in finale non erano arrivate mai: il Tottenham e il PSG. France Football si domanda: “Un segno che le cose si stanno muovendo? Certamente. Una tendenza? Non necessariamente”. Eh no, perché “come stanno facendo oggi con il progetto della Superlega – analizza France Football – le grandi d’Europa, intendendo le grandissime, hanno sempre reinventato le regole quando la concorrenza cominciava a sfuggirgli un po’ troppo di mano. O quando non avevano più il controllo assoluto”.
David Goldblatt, scrittore sudafricano, studioso di calcio, interpellato dalla rivista, dice che finaliste tipo Malmö, Bruges o Nottingham Forest, sono scoraggiate perché “per essere un grande club europeo oggi, devi essere un club di un grande paese e di una grande città. Quando dico di una grande città, può anche essere una città di provincia, non per forza una capitale, quelle che in Inghilterra chiamiamo le seconde città: Milano, Torino, Monaco, Barcellona, Manchester, Liverpool, Marsiglia“. Infatti le capitali, a parte Madrid, hanno vinto solo con il Chelsea nel 2012.
“I giganti d’Europa più spesso provengono da metropoli – leggiamo – in cui l’industria svolge o ha svolto un ruolo importante. Le loro radici hanno una base popolare molto forte, ma è la globalizzazione oggi il fattore importante per essere riconosciuti come un grande club. In questo contesto, una vittoria in Champions League ti rende capitale, perché ti proietta di fronte al mondo”.
Allora David Goldblatt osserva che “ci vuole tempo, sia per vincere che per essere accettati”. I Big Data possono portare un cambiamento più rapido, per l’élite traumatico, perché riducono potenzialmente il gap tra le piccole e le grandi: scouting, analisi statistica, ricerca scientifica, possono rimescolare le gerarchie, nota Goldblatt, come è chiaro dalle prestazioni recenti – sottolinea – della Roma, dell’Ajax, del Lipsia o dell’Atalanta. La Champions narrata allora come immobile si dimostra invece la più dinamica degli ultimi trent’anni. Pensando al PSG e al suo nuovo assalto, pensando al futuro che stanno ridisegnando i molti Metternich camuffati da giovani innovatori, France Football scrive che “per penetrare in questo circolo, che si rinnova tanto raramente quanto la Corte Suprema degli Stati Uniti, non si può perdere quest’ultimo treno. Il prossimo non passerà prima di trent’anni”.
Fonte: “Lo Slalom”