Anche per un tifoso di Inter, Milan o Juventus l’incrocio con il Real, è una proiezione nell’iperuranio, oltre le sfere celesti del calcio. Ci siamo noi, stavolta, chiusi nella navicella spazialead esplorare il fantastico. O, se preferite una metafora terrena, ci siamo noi oltre le colonne d’Ercole, mai sazi di nuove sfide, sempre desiderosi della prossima, dell’impresa audace. Ha scritto così, proprio così, Gigi Riva sul Corriere della Sera, alla vigilia di Atalanta-Real Madrid. L’avventura continua senza il capitano che ci ha portato fin qui, il Papu, lo abbiamo sbarcato a Siviglia, nell’ultimo scalo prima di affrontare l’oceano aperto, oltre Gibilterra. Proseguiamo col timoniere Gasp e la sua ciurma digiuna di tanto confronto eppure desiderosa di tanto ardire.
Lo sport, il calcio soprattutto, ammicca all’iperbole, solletica l’epica e la retorica. Sia consentito esagerare, dunque, ai cuori nerazzurri per la partita che era impossibile, è proprio davanti a questi appuntamenti che si tracciano bilanci, si ricordano traiettorie, si ricapitola il lungo viaggio, spesso periglioso al pari di quello di Ulisse. Chi scrive ha contato, nella carriera da tifoso troppo lunga per essere dichiarata, undici retrocessioni di cui una sciagurata dalla serie B alla serie C, nella stagione più funesta. Senza che mai deflettesse, ovvio, lo spirito di appartenenza, verso dei colori, verso una squadra che è fin troppo facile definire identitaria. Perché si sa che l’Atalanta è Bergamo e viceversa. E i bergamaschi, generosi per costituzione, mai hanno abbandonato la nave quando la tempesta era più forte. Li ricordo i ventimila al Brumana in terza serie quando le avversarie erano la Rhodense, il Sant’Angelo Lodigiano, la Sanremese, ad incitare come fosse la Coppa dei Campioni, ad aumentare, per rivalsa verso l’infausto destino (solo sportivo eh!), la loro quota di adesione, attaccamento, simbiosi. Me li ricordo, i traballanti campionati di serie A quando si lottava coi marosi per non affogare e solo la matematica uccideva la speranza. Ma subito il proposito era il riscatto, nella rassegnazione che induceva ad accettare il ruolo che ci era stato assegnato: di essere, in quanto società di provincia, pendolari tra la prima e la seconda classe.
L’orgoglio era la strenua resistenza alle superpotenze, le intrepide risalite quando si scivolava. «Molamai», era un imperativo coniato per altri scopi, se volete più fatui certo, comunque altrettanto importanti per ribadire il carattere con cui si accomunavano popolo e squadra. E nessuno che volesse tradire a favore di club abbonati agli scudetti. Troppo facile. Avevamo, di tanto in tanto, soddisfazioni che uscivano dal seminato, come la semifinale di Coppa Coppe col Malines. Erano episodi, piccole vacanze cioè eccezioni all’ordinario, mai avremmo immaginato potessero diventare felice consuetudine. La nostra cifra era la maglia sudata, la sofferenza, la difesa arcigna.
E poi venne Gasperini e con lui la rivoluzione copernicana, il mutamento genetico. L’idea, al principio suonata alle nostre orecchie come bizzarra, che si può osare, che non ci sono limiti se non quelli autoimposti, che anche Bergamo, perché no?, può salire nell’Olimpo e guardare negli occhi gli dei del pallone, non con tracotanza ma con l’estrema fiducia nella propria forza. Non sarebbe bastato se la proprietà, i Percassi, non avessero assecondato il folle volo. In fondo, nel mondo globalizzato, anche loro con le loro aziende sono abituati a competere con i big del settore. Una «corrispondenza d’amorosi intenti», per parafrasare il Foscolo, che ha trasformato Cenerentola nella principessa. Non è più il ballo della debuttante, è la danza col primo cavaliere, il Real Madrid dei record di trofei, incerottato per le assenze ma pur sempre con tutte le sue mostrine sul petto.
L’incredibile è diventato vero dopo un percorso esaltante iniziato cinque anni fa. Non siamo degli intrusi, come ci dipingeva Andrea Agnelli ancora poco fa, tantomeno un favola. Siamo la dimostrazione che qualunque status quo, qualunque gerarchia costituita non è immutabile se si è sostenuti da un’idea e la si persegue con tenacia. «Impossibile — diceva Napoleone — non è una parola francese». Ora, lo sappiamo, nemmeno un vocabolo del dialetto bergamasco.