Ottobre 1967. La Roma era guidata per il terzo anno consecutivo da Oronzo Pugliese, e aveva avuto un inizio scoppiettante spinta dai gol del neo acquisto, prelevato dal Genoa, Giuliano Taccola, rivelazione del campionato. Con il passare del tempo, la squadra si sgonfiò terminando il campionato con un decimo posto che stemperò le speranze cresciute nella fase iniziale del torneo. Quella Roma era una squadra soda, un po’ rustica, ad immagine del suo allenatore. Scarpe grosse, tanta laboriosità, tanta modestia. Proprio l’opposto della Roma luccicosa e scialacquatrice dei primi anni ’60. Quando, travolto dalla folie de grandeur, il conte Marini–Dettina presidente fini i soldi e l’allenatore Lorenzo chiamò al teatro Sistina i tifosi per una colletta. Nel calderone di rame fu raccolto abbastanza per farsi tutti quanti, elemosinieri e questuanti, una fojetta fuori porta. Qualche mese dopo, nel 1965, la presidenza fu assunta da Franco Evangelisti, «Francuccio nostro» il proconsole di Andreotti che così, da nume tutelare di Roma e Ciociaria, assurse a nume tutelare della Roma. Francuccio nostro mise sul mercato Angelillo, Lojacono, Da Costa, Orlando, De Sisti, Cudicini, Schnellinger, Sormani, i campioni, quale di genio e sregolatezza e quale di buoni costumi, della Roma scialacquatrice.
Venne ingaggiato un allenatore che costava poco, il commendator Oronzo Pugliese comunemente noto come «don Oronzo», o «il mago del poveri», o, dalle vigne natie che davano un rosso sanguigno, «il mago di Turi». Sanguigno come il suo vino era don Oronzo, allenatore bravissimo, un personaggio pittoresco e clamoroso: Bertoldo della cultura contadina, Cincinnato che tra i suoi vigneti si ritemprava dalle battaglie domenicali. La Roma di don Oronzo si classificò ottava nel campionato ’65-’66 e decima nel ’66-’67. Allora Francuccio nostro si decise a spendere ben 240 più 240 milioni per ingaggiare due eleganti centrocampisti, uno il doppione dell’altro: Capello e Cordova. Sul mercato dell’usato, sui mercati di paese, sui mercatini rionali furono acquistati gli altri che don Oronzo allenatore e Losi «core de Roma», capitano, condussero alla pugna.
La Roma pareggiò a Milano la partita d’esordio contro l’Inter, sconfisse il Napoli, vinse a Ferrara, sconfisse la Fiorentina e conquistò il primato. Tanta più gloria fu conferita ai protagonisti quando si apprese della notte brava che, traditi da un minestrone stanco – come racconta “Storie di Calcio” – avevano trascorso. Un cronista raccontò l’epopea di Pelagalli, dodici corse al gabinetto. «Più forti della diarrea», un altro intitolò l’articolo. Alla fine di quel 1967 Roma faceva 2.656.956 abitanti e lamentava nel bilancio comunale mille miliardi di lire di debiti: salvo queste statistiche da grande città moderna, Roma conservava certi modelli genetici della piccola grande città che era stata, la Roma ironica, strafottente, pacioccona e mammarola. Sui giornali andavano in prima pagina, come avvenimenti sensazionali, la rapina alla banca di Torpignattara, l’arresto di cinque spacciatori di marijuana, il professor Frittella che s’era venduta le promozioni scolastiche. Maurizio Arena e Maria Beatrice «Titti» di Savoia principessa di Sarre che facevano all’amore. Forse si sarebbero sposati, e magari una restaurazione monarchica ci avrebbe reso tutti quanti sudditi di Maurizio Arena.
Allo stadio si andava con le famiglie, i ventimila tifosi che erano giunti da Napoli con le creature, i somarelli e la frittata di maccheroni, i tremila tifosi della Roma che erano andati a Torino per la partita vittoriosa contro la Juventus: e sembrò selvaggio e scandaloso che Peppe der Garbante avesse buscato un pugno sull’occhio destro, e er Braciola una botta nello stomaco che gli provocò conati di vomito. Già non bastasse lo scandalo di «Gungala», il film selvaggio che, come garantiva la pubblicità, mostrava «la provocante donna della giungla al naturale nuda e vergine».
«Sò finiti li tempi cupi, forza Roma e forza lupi», «Roma faje li bozzi», poemi e cantate composte lì per lì festeggiavano la Roma proletaria e campagnola che conservò il primato fino all’ottava giornata.
Alla nona subì a Varese la prima sconfitta, e via via venne sorpassata da tutte le squadre ricche. Si classificò decima, a 19 punti di distacco dal Milan campione d’Italia. Tuttavia i tifosi si bearono di quel campionato ’67-’68: tra i cinquanta giorni di primato, e la Lazio all’undicesimo posto della Serie B, a due punti appena dalla retrocessione in Serie C.