Il falso nueve mal sopportato dal regime
Apr 11, 2021

Per molti esiste una sola discriminante in base alla quale giudicare un attaccante. In barba ai “falsi nueve”, ai centravanti di manovra, a quelli “moderni”, quelli che tanto si sacrificano per la squadra, per tanti l’unico criterio in base al quale un attaccante dev’essere giudicato è quello dei gol segnati. Perchè è il gol l’obiettivo del gioco, è il gol ad emozionare, a far gridare le folle: è il gol l’unica cosa che conta davvero in un mondo, quello del calcio, che è stato sviscerato ed analizzato in ogni suo più piccolo dettaglio.

Ferenc Deàk

Utilizzando solo e soltanto questo criterio, mettendo in fila gli attaccanti che hanno gettato più palloni di cuoio in fondo al sacco nell’ultimo secolo, vien fuori che il giocatore più prolifico in gare ufficiali, e quindi il miglior attaccante della storia – sempre tenendo conto esclusivamente di questa discriminante – risponde al nome di Josef Bican, ariete austriaco naturalizzato cecoslovacco in attività tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta: si stima, sebbene i dati dell’epoca lascino sempre qualche riserva, che abbia segnato più di 805 reti in partite ufficiali. Dietro di lui – come ci ricorda “Libero Pallone” – Romario, Pelè, Puskás  e Gerd Müller: mostri sacri, leggende del pallone in carne ed ossa. Se sentendo pronunciare i nomi di Pelè, di Romario o di Puskás, quasi ogni appassionato di calcio drizza le antenne, così non accade facendo il nome di Ferenc Deàk. Eppure c’è lui, con più di 576 palloni mandati a gonfiare la rete, al sesto posto della classifica marcatori all time in gare ufficiali. Il suo nome, ai più, dice ben poco, eppure Deàk precede monumenti come Seeler, Hugo Sanchez, Di Stéfano e Nordahl. Perchè, a differenza di queste stelle del firmamento del pallone mondiale, Deàk è finito nell’oblìo? La risposta è molto semplice: Deàk nell’oblìo non ci è finito da solo, bensì ci è stato spinto con forza. Perchè c’è stato un tempo in cui segnare grappoli di gol non era condizione sufficiente per guadagnarsi fama e successo. Quel tempo, in Ungheria, corrisponde con il periodo a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Ma per raccontare la storia di Ferenc Deàk, e di come uno degli attaccanti più letali della storia del calcio finì nel dimenticatoio, serve fare un passo indietro. Fino al 1922, quando a Budapest Ferenc vede la luce. Delle sue origini, dei suoi primi anni di vita, ben poche informazioni sono arrivate fino a noi. Si sa che giocava a calcio, si sa che aveva talento, e che pur non avendo fisico e tecnica eccezionali sopperiva con quello che oggi chiamiamo “fiuto del gol”: quella capacità di trovarsi al posto giusto nel momento giusto, quel sesto senso che permette solo a pochi eletti di anticipare il corso degli eventi, beffando così difensori sempre un attimo in ritardo.

Nell’Ungheria

Questo, in estrema sintesi, era Ferenc Deàk. Fu nello Szentlőrinci, squadra di terza divisione, che Ferenc mosse i primi passi e, naturalmente, segnò i primi gol. Gol che trascinarono la squadra fino alla massima serie magiara, prima che la mannaia della Seconda Guerra Mondiale arrivò ad interrompere il naturale corso degli eventi, e quindi anche dei campionati di calcio. Ma Ferenc non perse tempo, e nel primo campionato dopo la fine del conflitto diede spettacolo: nel 1945-‘46 Deàk stabilisce un record che resterà per tantissimi anni imbattuto, segnando la strabiliante cifra di 66 reti in 34 gare. E si ripete, con numeri più contenuti ma sempre impressionanti, nell’annata successiva: 30 apparizioni, 48 reti, il tutto giocando per una squadra, lo Szentlőrinci, che non eccelle e naviga a metà classifica. Una squadra che sta stretta a Ferenc, che così, per la stagione successiva, dopo 114 gol in due anni, si trasferisce al Ferencváros. E anche qui Bamba continua a strabiliare. “Bamba”, questo è il soprannome che i tifosi ungheresi gli hanno dato. Letteralmente significa “lento, tardo”, ma nel caso di Deàk non è di certo un’offesa. Si tratta di un nomignolo inventato per rendere l’idea di quel che Ferenc è sul campo: spesso ciondolante a centrocampo, quasi pigro, totalmente estraneo alla manovra e a ciò che gli accade intorno. Ma è solo un’apparenza, perchè quand’è il momento giusto, quando arriva l’invito giusto da parte dei compagni, Bamba è svelto, micidiale, spesso letale nello scattare e nel planare rapace su ogni pallone. Sfracelli anche con il Ferencváros, dicevamo: al primo anno 40 reti in 31 partite, dietro a un altro Ferenc, quel Puskás di cui, da lì a qualche anno, si parlerà molto, che ne fa 50. Nel 1948-‘49 la stagione perfetta per Bamba, con il titolo ungherese e quello di capocannoniere: le sue 59 reti trascinano i biancoverdi al trionfo. Uno così, uno come Deàk, non può chiaramente rimanere fuori dalla nazionale: con la rappresentativa magiara Ferenc gioca 20 partite a partire dal 1946, e anche qui il vizio è il solito, i gol sono 29, per una media ancora una volta spaventosa.

Bamba in azione contro lo Slavia Praga

Ma è qui, a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta, che torniamo all’inizio di questa storia, è questo il momento in cui a Deàk i gol, il talento, le prodezze, non bastano più. Gli si chiede di più, gli si chiede, come a tutti gli altri sportivi più celebri, di mostrare fedeltà al regime comunista instauratosi dopo la Seconda Guerra Mondiale. Al di là della Cortina di Ferro, tutto dev’essere allineato alle direttive sovietiche in arrivo da Mosca. Anche il calcio. Ed è seguendo questa linea che Gusztáv Sebes, ex vice-ministro dello Sport e, dal 1949, commissario tecnico della nazionale magiara, vara una riforma che mira ad associare le principali realtà calcistiche nazionali alle maggiori istituzioni dello stato. Così il Kispesti diventa la Honvéd, letteralmente “difesa della patria”, dal nome dell’esercito dell’impero austro-ungarico: in estrema sintesi, la Honvéd diventa la squadra dell’esercito. Il Vasas diventa la rappresentativa del partito comunista, l’Újpest Dózsa quella del Ministero degli Interni. Ogni singolo ambito della vita dello stato, rilevante o ininfluente che sia, deve insomma allinearsi all’ideologia del partito. E così devono fare le persone, compresi i calciatori, anche se a questi ultimi, per la verità, è concessa qualche libertà in più, dato il loro status di ambasciatori del regime sui campi d’Europa e non solo: c’era così chi si dichiarava pubblicamente fedele al regime, c’era chi si manteneva più distaccato e neutrale. C’era però chi di quell’ideologia non ne voleva davvero sapere, chi apertamente rifiutava qualunque cosa avesse a che fare col partito comunista.

Ancora Deàk con la maglia della nazionale

Ed è proprio questo rifiuto, quest’ostilità che Bamba non cela nei confronti del regime, a segnare la fine dei suoi giorni da campione, e contemporaneamente l’inizio della discesa verso l’oblìo. Deàk gioca la sua ultima gara in nazionale contro la Svezia nel 1949, una vittoria per 5-0 in cui Ferenc, tanto per non perdere l’abitudine, segna un gol. Poi, con Sebes in panchina, per lui non c’è più spazio. Perchè Bamba non si allinea al regime, e questo status di feroce anticomunista pesa più di 242 gol segnati in stagioni dal ’45 al ’49. Su di lui, poi, pesano anche accuse di spionaggio: tesi mai provate, probabilmente montate ad arte dal regime per screditare un suo fiero oppositore. Nel 1950, poi, Ferenc firma definitivamente la sua condanna: in un bar fa a pugni con due agenti dell’Avh, la polizia segreta ungherese, appendice degli apparati di sicurezza sovietica.

Uno dei libri scritti su Deàk

È il passo falso che il regime aspettava: Ferenc sparisce, non solo dalla lista dei convocati di quella che si appresta a diventare l’Aranycsapat, ma proprio dalla circolazione. Per qualche settimana nessuno lo vede più tra le strade di Budapest: si dice che sia rinchiuso nella “Casa del Terrore”, il quartier generale dell’Avh, al numero 60 di Andràssy ùt. Il partito concede a Bamba una scelta: da una parte il trasferimento all’Újpest Dózsa, squadra del Ministero degli Interni, dall’altra la galera. Ferenc sceglie la prima via, sceglie di piegarsi per evitare di finire – di tornare – in prigione. Continua a giocare, ma lo fa senza più passione. Giocare non è più un piacere, bensì un dovere, utile solo ad evitare la galera. E poi, se 242 reti in 4 stagioni non sono stati sufficienti per prendersi un posto in nazionale, che senso ha dannarsi l’anima e spremersi per un traguardo che, in ogni caso, gli resterà precluso? Ferenc rimane all’ Újpesti fino al 1954, le medie realizzative sono buone, non più spaventose come quelle degli anni precedenti, ma sufficienti a mantenere la squadra costantemente nelle prime posizioni. Poi quattro stagioni nelle serie inferiori con le maglie di Vm Egyetèrtès, Bp Spartacus, Bfc Siòfok e ancora Egyetértés. Poi il ritiro, nel 1957, un anno dopo la rivoluzione repressa con il sangue dai carri armati dell’Armata Rossa.

Il grande fiuto del gol

La carriera di Bamba, però, era di fatto finita sette anni prima, dopo quella scazzottata in quel bar di Budapest, dopo l’estromissione da una nazionale che si preparava ad entrare nella leggenda. Già, perchè quella di cui Deàk non ha potuto far parte non è una nazionale qualunque, è l’Aranycsapat, la “squadra d’oro” trascinata da una generazione di fenomeni germogliata negli anni della Seconda Guerra Mondiale ed esplosa in tutto il suo splendore dopo la fine del conflitto. Una formazione meravigliosa, incapace di fregiarsi dei titolo mondiale, ma trionfante alle Olimpiadi di Helsinki e nella Coppa Internazionale del 1953.

Uno squadrone in grado di segnare la storia del pallone scrivendone pagine indimenticabili, come lo storico 6-3 inflitto ai “maestri inglesi” a Wembley. Una selezione di stelle di prim’ordine come Puskás, Kocsis, Hidekguti, Czibor, diventata grande anche senza Deàk, che pure a pieno titolo avrebbe potuto farne parte. Eppure, paradossalmente, proprio l’esclusione di Deàk fu madre di uno dei capolavori tattici di Sebes: senza Bamba mancava il centravanti, così il ct pensò di arretrare di alcuni metri il raggio d’azione di Hidekguti. Fu una rivoluzione, era l’invenzione del ruolo di centravanti di manovra, antesignano dell’odierno “falso nueve”. Cambiò il calcio, quella squadra, ne segnò un’epoca.

1949, Deák nel Ferencváros

Deàk non potè fare altro che guardare da lontano i suoi vecchi compagni; lui, da esiliato, osservò abbassando la testa i suoi amici scalare vette inesplorate del mondo del pallone. “Quando vedo le repliche del 6-3 all’Inghilterra, mi giro dall’altra parte”, dichiarò Bamba qualche anno più tardi. Aveva rispettato i suoi ideali, ma aveva pagato a caro prezzo la sua scelta, con quel retrogusto amaro del rimpianto che lo avrebbe accompagnato per la vita intera. Morì nel 1998, due anni dopo quell’Ungheria che lo aveva rinnegato gli conferì l’Hungarian Heritage Award, riconoscimento destinato a personaggi particolarmente meritevoli nella cultura, nell’economia, nelle scienze o nello sport. Da lassù, forse, a Bamba sarà scappato un sorriso amaro. Perchè l’orgoglio per aver rispettato i suoi ideali resta, ma nessun riconoscimento potrà mai cancellare il rimpianto di non aver scritto la storia insieme ai suoi vecchi amici, quelli dell’Aranycsapat, nonostante 242 gol in 4 stagioni.

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