Una vita sempre al fronte, in prima linea per Salvatore Avallone, detto Sasà. Una carriera sempre in bilico tra il grande calcio e l’onesta professione in serie C. Da vero uomo del Sud, c’è chi lo ama e chi lo odia e lui – nonostante oggi si goda con profitto il privilegio di fare il team manager nella squadra della sua città natale, la Salernitana in B – si sente il colore grigio marchiato sulla pelle. “E come potrebbe essere altrimenti? – ci spiega al telefono -. Ad Alessandria ho vissuto sei stagioni indimenticabili e soprattutto importanti nel contesto della mia carriera. L’Alessandria è un club che ha una storia non banale, e ha una maglia dal colore unico al mondo, che ho sempre cercato di onorare al meglio. Mi ha trasmesso valori e sentimenti che difficilmente avrei potuto recepire altrove”. Incominciamo dall’inizio. Dalla Juventus. “Due persone eccezionali, il presidente Giampiero Boniperti e l’allenatore Dino Zoff mi presero dalla Primavera e mi catapultarono in prima squadra – racconta -. Era la Juve di Pasquale Bruno, del povero Fortunato e di Salvatore Schillaci. In campionato giocai due volte, la prima sostituendo Alessio nel vecchio Comunale contro la Cremonese, la seconda volta rilevando Alejnikov a Lecce. Ma il mio momento magico l’ho vissuto in Coppa Uefa. Nel ritorno dei quarti in casa perdemmo 2-1 contro l’Amburgo, ma ci qualificammo e io rilevai proprio Pasquale Bruno. Poi Zoff mi mandò nella mischia addirittura nella finalissima di ritorno, che si giocò in campo neutro ad Avellino, contro la Fiorentina di Roberto Baggio, che sarebbe poi andato proprio alla Juve. Pareggiammo 0-0 e vincemmo la Coppa, io giocai gli ultimo dieci minuti al posto di Rui Barros ed ebbi l’onore di festeggiare alzando il trofeo che mi porse il capitano Stefano Tacconi”.
Una favola, espressione di un calcio lontano, che oggi sarebbe difficile da replicare. “È vero – ammette Avallone -, il calcio è profondamente cambiato, forse in peggio a mio avviso. Diventa praticamente impossibile che un ragazzo cresciuto nelle giovanili vada a vincere in prima squadra, è troppo forte la concorrenza dei giocatori stranieri, non sempre all’altezza delle situazioni. Ma fa comodo per i bilanci delle squadre farli arrivare, senza né arte né parte, penalizzando i nostri ragazzi. Oggi si gioca troppo a calcio, ci sono troppi interessi, domina il solo business e così facendo forse fra non molto la gente si stuferà”.
Dopo la Juve, Avallone andò all’Avellino in serie B, per poi finire a Casale Monferrato. “Non ho percepito però il proverbiale astio che i tifosi grigi riservano a chi ha indossato la maglia nerostellata – ammette -. D’altronde a Casale ho giocato poco; devo però dire che quella era una squadra forte che però alla fine retrocesse ,ed è difficile spiegare il perché. Pensate che al termine del girone d’andata era nelle primissime posizioni: c’erano giocatori come il portiere Maurizio Brancaccio, un mio grande amico con il quale ci vediamo ancora adesso, Luxoro, Tintisona e Weffort”. Quindi l’Alessandria e il fascino del “Moccagatta”. “Uno stadio come nessun altro in queste categorie, che emana un pathos unico – ancora Sasà -. I tifosi sono competenti e molto esigenti, ti danno una carica micidiale anche quando rumoreggiano per il disappunto. E gli avversari quando escono dal sottopasso sono già intimoriti. Alessandria è anche questo”.
Lei ha sempre detto di dovere tantissimo a Ferruccio Mazzola.
“Esatto, per vie traverse ha fatto di tutto per farmi finire ad Alessandria e poi il destino ha voluto che proprio lui sostituisse Sabadini sulla panchina grigia nella stagione 1992-’93. Devo tutto a questo grande uomo, perché se ho continuato a giocare a calcio è stato per merito suo, venivo da una serie di problemi fisici che poi si riflettevano anche sul morale. Ero sul punto di mollare tutto e lui mi ha trasmesso la voglia di lottare, di non arrendermi, mi ha trasformato in un uomo nuovo, quindi in un giocatore nuovo. Mazzola è stato un personaggio pieno di coraggio, che non ha esitato a denunciare situazioni compromettenti come il doping e per questo è stato isolato. L’Italia in fondo è un paese di ipocriti e di falsi moralisti”.
Quali i ricordi più belli riferiti ai sei campionati in maglia grigia?
“In primo luogo il mio esordio, in casa contro il Vicenza. Vincemmo 1-0 e proprio Mazzola vinse la scommessa sul mio conto, in squadra ritrovai Paolo Siroti, che era stato mio compagno alla Juve. Quell’anno riuscimmo a raddrizzare la stagione esprimendo anche un calcio molto bello a vedersi. Ricordo poi la voglia di rinascita dopo la tragica alluvione del 1994, che ci costrinse a giocare diverse partite casalinghe lontano dal nostro stadio che era stato invaso dal fiume”.
In totale, Avallone ha collezionato ben 157 presenze in maglia grigia. Quali giocatori grigi non ha mai dimenticato?
“La forza del gruppo è sempre stato il nostro zoccolo duro, per cui non mi sento di citare questo piuttosto che quello. Permettetemi però di spendere una parola speciale per il povero Paolo Perugi che ci ha lasciati troppo presto per una brutta malattia. Di lui ricordo l’umiltà e la serietà, un calciatore d’altri tempi che ho avuto la fortuna di avere come compagno”.
Dopo l’Alessandria la Nocerina, il Varese e la Juve Stabia.
La Nocerina – composta da grandi calciatori come Criscuolo, Di Maggio, Avallone, Rubino e da un grande tecnico come Simonetti, fece innamorare letteralmente i tifosi dei molossi.
Oggi Sasà Avallone – ottimo centrocampista e nel finale di carriera anche affidabile difensore – è l’anima dirigenziale della Salernitana, il giusto collante tra la proprietà (Lotito) e la squadra.