Quando un club non è solo un marchio
Gen 13, 2021

2014. Nell’est dell’Inghilterra è andata in scena una di quelle battaglie che potrebbero benissimo essere catalogate come di “sangue contro oro”. L’ha raccontata bene Michele Mannarella. Niente di epico, sia chiaro. Si è trattato, però, del braccio di ferro intrapreso dai tifosi dell’Hull City, squadra allora neopromossa in Premier League, contro la politica del loro presidente, Assem Allam, intento a cambiare i connotati al club dello Yorkshire per ragioni di marketing. L’antefatto. 

2013, contro il Chelsea

Allam aveva acquistato l’indebitato club nero-ambrato nel 2010, dopo la retrocessione in Championship (l’equivalente della nostra serie B), salvandolo dal dissesto economico ma non riuscendo a chiudere mai in attivo i bilanci.

L’Hull nel 1936

Per questo motivo, appunto, il patron egiziano aveva deciso di intraprendere la via dell’autofinanziamento, cercando di sfruttare le risorse del club invece di continuare a spendere soldi in esso. Come? Puntando forte sullo sviluppo del marketing, settore molto curato dai club d’Oltremanica proprio perché molto remunerativo, soprattutto grazie al mercato estero.

Stagione 1978-’79

E fin qui niente da obiettare per i tifosi, che anzi gli erano stati grati per aver salvato la società. Allam però aveva deciso di rendere il nome della società più accattivante, proprio per il marketing. L’intento dell’imprenditore egiziano era trasformare il tradizionale nome “Hull City AFC 1904” in “Hull Tigers Ltd.” , rimuovendo sia il suffisso AFC, sia soprattutto il City. “Il nome City è troppo comune, è ‘schifoso’, ce l’hanno tante altre squadre come Manchester, Birmingham, Leicester, Bristol – a detta sua – e poi non è rilevante rispetto ad Hull, e soprattutto rispetto a Tigers, il simbolo della potenza. Inoltre, da manuale di marketing, i nomi più brevi hanno un impatto più rapido”. Una decisione radicale che aveva scioccato i tifosi dell’Hull City, fino allora dalla parte del patron.

Anno 1982

La polemica. Ampiamente preventivabile, era arrivata la protesta dei tifosi. Intelligente, pacifica ma ferma e decisa. Al grido di “No To Hull Tigers”, i supporters nero-ambrati, che pure non si erano mai sottratti a qualsiasi tentativo di dialogo con il board, si sono raggruppati nel comitato “City till we die” per rigettare al mittente qualsiasi tentativo di cambiamento dell’identità del club nero-ambrato, e anzi, con l’obiettivo di tutelare la storia della squadra. Tant’è che dal 2014 il CTWD (City till we die, appunto) hanno assorbito gli altri Supporters Trust esistenti anche per cercare di acquistare una quota di partecipazione del club, portando le istanze della tifoseria all’interno del consiglio d’amministrazione, e impegnandosi nel processo di valorizzazione dello stadio e dell’area circostante, che però restano di proprietà del Consiglio comunale. Le risposte di Allam. Il patron egiziano, se in un primo momento aveva addirittura proposto di rimborsare i tifosi che non volevano vedere l’Hull Tigers ma il vecchio caro Hull City AFC, ha successivamente alzato il tiro affermando che i contestatori potevano benissimo starne alla larga, ché tanto alla maggioranza dei tifosi interessa il football, non il nome della squadra. Per poi ironizzare sulle pagine dell’Indipendent : “Quelli che cantano ‘City till we die’ possono pure morire quando vogliono”. Dagli spalti però, nessuna reazione isterica, anzi. Con molto sense of humour, i tifosi delle Tigri hanno canzonato il presidente intonando le sue stesse parole di scherno, ricevendo la solidarietà da parte delle altre tifoserie d’Inghilterra (ma anche sassate ai pullman da parte dei Reds di Liverpool) moltiplicando il loro seguito sui vari social network ed avendo la possibilità di andare a colloquio con i rappresentanti della FA, i quali hanno risposto loro che “il nome è un elemento fondamentale del patrimonio di un club, e non può essere modificato senza prima aver consultato i tifosi e le altre parti rilevanti della società”.

Phil Turner 

Quindi, dando di fatto ragione alle associazioni di tifosi in lotta con la dirigenza. La quale, però, aveva presentato la richiesta formale di rename.


L’ultima parola l’ha avuta proprio la Football Association, che ha dovuto necessariamente rispondere positivamente o alla richiesta del ricco proprietario egiziano, o alla tifoseria che, con le poche risorse a disposizione, urlava “a club is not a brand!”, per difendere disperatamente l’identità del proprio club e della propria città. Risultato? Oggi la squadra, che milita nella terza divisione del campionato inglese, continua a choamarsi Hull City AFC

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