C’e’ un ricordo che mi torna in mente quando penso a quella sera di metà giugno del ’68, quando il Santos affrontò l’Alessandria. Non pensate solo alla suggestione e allo stupore che potevano sorgere in un undicenne, per la prima volta dentro al Moccagatta, illuminato alla luce dei riflettori. A me, quella notte, infatti, fecero effetto soprattutto quelle scarpe tutte nere, lucide, quasi guantate dei brasiliani. Eh, già, per la prima vedevo scarpini con le stringhe dello stesso colore della calzatura che suscitare un effetto cromatico inusuale, tanto da farmi apparire ancor più elegante e dinoccolato il passo e il palleggio di Pelè e compagni.
Il Santos, il mitico Santos era arrivato ad Alessandria nell’ambito dei festeggiamenti previsti per l’ottavo centenario della città. Il Comitato organizzatore, pur tra le polemiche e la dietrologia, anche allora imperanti in città, aveva pensato a una serie di appuntamenti di grande suggestione: prima il Santos e poi, a metà luglio, sempre al Moccagatta, gli Harlem Globetrotters, straordinari interpreti di un basket che mischiava tecnica, spettacolo e comicità.
Grazie all’appuntamento con la squadra di Pelè, Alessandria si era guadagnata spazio anche nelle pagine sportive dei quotidiani nazionali. Tra un titolo su Eddy Merckx e uno sui Giacomo Agostini, trionfatore al Tourist Trophy, Lojacono e compagni avevano la possibilità di emergere, almeno una volta in tutta la stagione, dall’anonimato di un’annata, la prima in Serie C, dopo gli anni della B e della A, segnata da risultati decisamente deludenti. Partiti l’anno prima con ambizioni di promozione, ma evidentemente impreparati a cogliere quegli obiettivi, i Grigi avevano bruciato via via una serie di allenatori, senza peraltro scongiurare l’epilogo drammatico della retrocessione. Inevitabile che il pubblico, in quella prima stagione di C, si fosse allontanato, tornando in massa al Moccagatta solo in occasione della sfida con la squadra di Pelè.
Ingaggiati con un cachet di 25.000 dollari, circa quindici milioni di lire, i brasiliani erano arrivati nel mezzo di un lungo tour che li avrebbe portati su altre piazze per altre remuneratissime amichevoli. La città li accolse con tutti gli onori, come si conveniva, d’altronde, nel caso di ospiti così prestigiosi. In quel momento, il Santos era soprattutto la squadra di Pelè.
A parte l’anziano portiere Gilmar, campione del mondo con la Seleção in Svezia e Cile e il terzino della nazionale carioca Clodoaldo, la formazione di bianco vestita, portava con sè l’alone del mito leggendario del suo numero 10, in quel momento, indiscutibilmente, lo sportivo più importante del mondo.
Dall’altra parte, i Grigi in blu elettrico, con il mitico Ramon Lojacono a guidarli in una sfida che sarebbe entrata nella storia della società e della stessa città che quella sera aveva gremito lo stadio, nonostante la temperatura non propriamente estiva. Della partita ricordo poco, se non una gran punizione dello stesso Lojacono che, inarcata la schiena, aveva sparato un missile verso Gilmar che aveva abbozzato la parata a mani aperte, con lo sciaff dei palmi che aveva risuonato in tutto lo stadio.
Lo spettacolo vero era però il palleggio elegante degli ospiti, punteggiato dalle loro voci che ne sottolineavano la sequenza; una danza fatta di stop di petto, tacchi e palle serviti di controbalzo. E Pelè ci mise del suo, con un paio di discese palle al piede, di quelle in cui si vedeva la sua classe di funambolo e la sua potenza di atleta, con un gol propiziato da un suo affondo, chiuso dopo una triangolazione, con un destro basso, nell’angolino. Quel calcio a colori, in un’epoca di TV in bianco/nero resta comunque un ricordo indelebile, nella memoria di un undicenne. Altra epoca, altro calcio, stessa magia.
Gigi Poggio