È sempre stato considerato un giocatore di categoria estremamente interessante e affidabile. Beppe Accardi era e rimane un ex ragazzo palermitano, del quartiere Zen. Una vita mai banale. A 17 anni era già nella “rosa” del Bologna, in serie A. Poi è tornato nella polvere – tra i dilettanti – a Mirandola, nel Modenese. Quindi il tour tra i professionisti: a Ravenna e Olbia (C2, il trampolino di lancio), a Cava de’ Tirreni (C1). A 22 anni, la grande occasione, all’Inter, con Trapattoni che si innamora di lui durante un’amichevole con la Cavese.
In nerazzurro però va male. Accardi non sfonda, riparte da Campobasso, quindi Foggia e Licata, poi si toglie lo sfizio di scendere fino in C1, per giocare nella sua Palermo. Ma siccome nessuno è profeta in patria, volta ancora pagina, va ad Alessandria dove riacciuffa il treno che lo porta fino a Reggio Emilia. In granata trova la gioia della serie A, evento mai visto da quelle parti. In Italia chiude con il Venezia in B, l’ultima “fiammata” è in Indonesia, nel Pelita Jaya. Oggi fa il procuratore e non disdegna di partecipare, come opinionista, alle tante trasmissioni televisive.
Beppe Accardi calciatore, come inizia?
“Ho iniziato a giocare nella scuola calcio più prestigiosa di Palermo: l’Ac Bacigalupo, con Marcello Dell’Utri presidente e Mormile allenatore. La struttura della società era eccezionale, organizzata, all’avanguardia. Ho fatto in tempo ad inaugurare il nuovo campo, dove adesso sorge il Velodromo, e poi a fine anni ’70 sono andato all’Amat, da dove siamo venuti fuori io, Totò Schillaci, Massimo Taibi, Carmelo Mancuso, Tommaso Napoli e c’erano giocatori che a livello qualitativo erano ancora più forti. Quella scuola era basata sulla passione di tutti i genitori e i ragazzini. E come dimenticare la nostra guida, Mario Falanga, quello che ci ha dato i principi basilari delle regole, del rispetto. Il premio settimanale sapete qual’era? Chi si comportava meglio andava a fare il raccattapalle. I nostri idoli in quell’epoca non erano i giocatori di serie A, ma i giocatori più grandi dell’Amat, che giocavano in serie D e il mio idolo non era il Facchetti di turno, ma Giuseppe Adelfio, da lui studiavo tutto. Di quella scuola calcio ricordo tutto, la nostra fortuna sono stati i genitori, che avevano passione e credevano in noi, senza mettersi in mezzo più di tanto. E dopo l’Amat, per me, il Bologna…”.
Come arrivò al Bologna?
“Fui visto da Romano Fogli, che all’epoca era l’allenatore della Primavera del Bologna. Mi chiamò per fare un provino, poi l’anno dopo feci un provino con il Bologna e lì nacque la mia carriera calcistica. In quel momento il settore giovanile del Bologna era molto forte, c’erano Mancini, Marocchi…tutti giocatori che hanno fatto la storia del calcio italiano. Il secondo anno poi, fui operato di peritonite. E il Bologna credendo che facessi fatica a recuperare mi mandò in Interregionale, alla Mirandolese. All’epoca non c’erano i prestiti tra squadre professionistiche e serie inferiori. Ma alla Mirandolese cominciò il mio percorso, conobbi anche mia moglie. Giocai bene, feci una stagione positiva e andai a finire al Ravenna con Rino Foschi direttore. Rimasi due anni al Ravenna e nell’anno della retrocessione in Interregionale Foschi mi fece quasi da procuratore, perché mi portò all’Olbia in C2: il mio primo trampolino di lancio, poi infatti mi prese la Cavese dove giocai un anno a livelli eccezionali.
La società trovò anche un accordo con l’Avellino e mentre stavano mettendo a posto le pratiche, il presidente del club irpino, Graziano, fu arrestato. Saltò tutto. Intanto con la Cavese non avevo il contratto, ma ero vincolato alla società. Non accettai alcun rinnovo, in attesa di essere ceduto. La sera me ne andavo in discoteca, non avevo la testa per restare lì. La Cavese poi, doveva giocare la partita di Coppa Italia contro l’Inter: la notte ero rientrato alle 4, di pomeriggio mi chiamò il presidente, Don Guerino Amato, e mi disse: «firma il contratto e ti do la mia parola d’onore che prima della fine della Coppa Italia ti vendo». Su di me c’era l’Udinese”.
C’è ancora chi conserva il poster di Accardi ai tempi della Reggiana
La partita contro l’Inter fu un’occasione importante. Da lì, a sorpresa, il passaggio in nerazzurro…
“Giocai talmente bene che tutti i giornali, il giorno dopo, scrissero «L’Inter compra chi la fa tremare». Ma nessuno avrebbe mai immaginato che questo fosse vero. Andai a Milano con il presidente Amato, ma pensavo di andare a firmare per l’Udinese… il presidente a Linate mi diede cinquemila lire dicendomi «vatti a levare la barba», gli chiesi «presidente, ma in aeroporto? » ed effettivamente in aeroporto c’era un barbiere. Mandò il segretario della Cavese all’Hotel Gallia per incontrare l’Udinese, noi invece prendemmo un taxi direzione Foro Buona parte.
E sul taxi mi chiese «Beppe, lo sai dove stiamo andando?», io non sapevo che lì ci fosse la sede dell’Inter e risposi «a vedere la statua di Napoleone?». «No – mi rispose il presidente – stiamo andando all’Inter, ma tu devi dire che non ci vuoi andare perché l’Udinese mi dà più soldi». Figuriamoci… Arrivato in sede ad un certo punto si apre la sala delle coppe, entrai nell’ufficio del ds Beltrami, presi la penna e chiesi «Dove devo firmare?», senza sapere quanti soldi avrei preso e di quanti anni sarebbe stato il mio contratto. Impossibile dire di no all’Inter, avevo realizzato un sogno. Tutti da bambini abbiamo delle ambizioni. E se ti ritrovi dalla periferia di Palermo all’Inter… come fai a rifiutare? Poi io sono tifoso interista, come mio padre, che avevo perso un anno prima. Si avverava un sogno, per me e per mio papà che non c’era più. Il mio grande problema, subito dopo la firma, era telefonare a mia moglie e mia madre per dire che avevo firmato per l’Inter senza farmi ridere dietro…”.
Come andò la telefonata?
“Andai con Pellegrini a vedere la partita di Coppa Italia Bologna-Inter, il presidente lì mi avrebbe presentato a stampa e squadra. In macchina aveva il telefono, che mi mise a disposizione per telefonare a qualcuno per avvisare del mio trasferimento all’Inter. La prima telefonata la feci a mia moglie, la sua risposta fu «Ma la smetti di fare sempre scherzi? Ma va a quel paese», il grande problema fu convincerla che effettivamente mi aveva preso l’Inter, ero in macchina con il presidente e non potevo certo esternare… così le dissi di venire alla partita a Bologna. La telefonata più tragicomica invece, fu quella a mia madre: a lei del calcio non è mai importato nulla ma sapeva che mio padre tifava Inter. Dicendole che ero diventato un giocatore nerazzurro c’e ra il rischio che le venisse un infarto. E un anno prima avevo perso mio papà proprio per un infarto.
Ero abituato a fare gli scherzi telefonici, già immaginavo che dicendole «Mi ha comprato l’Inter» scoppiasse a ridere. La prima cosa che le dissi, al telefono, fu «Siediti». E lei «È successo qualcosa?», mia madre è una di quelle donne che quando chiami devi stare attento a quello che succede. La mia risposta fu «No mamma, non ti preoccupare. Mi ha comprato l’Inter…». Mi rispose «Ma scherzi sempre? Smettila…». «Mamma, guarda che mi ha comprato l’Inter, davvero». Ci misi cinque minuti a convincerla, poi presa dall’emozione cominciò a piangere: il mio passaggio all’Inter la fece tornare indietro di qualche anno, vista la fede nerazzurra di mio padre. Poi cominciò la festa. Intanto a Bologna incontrai Soncini, il mio ex allenatore rossoblu’. Quando arrivammo mi sentivo come uno che con l’Inter non c’entrava niente, poi ero anche timido. E il mio problema era giustificare a quelli del Bologna la mia presenza. In sala Vip arrivò Sancini, mi chiese cosa ci facessi lì e in modo timido risposi «Mi ha comprato l’Inter», lui replicò dicendomi: «Ma smettila, non dire cavolate». Poi si girò Pellegrini e mi presentò come il nuovo acquisto dell’Inter.
Una grande soddisfazione. Perché un po’ con il Bologna ce l’avevo, visto che dopo la peritonite mi mandarono a giocare in Interregionale. Ma a Soncini resto legato, perché in carriera mi ha insegnato tanto”. All’Inter però non timbrò mai il cartellino: zero presenze. “E tanti riscaldamenti! Ma per non aspettare ebbi la stupidità di sfidare Trapattoni dicendogli «O gioco o me ne vado»” Cosa le rispose il Trap? «Te ne puoi andare…». Il mio rimpianto più grande. Ma in quel momento non ero pronto, giocare all’Inter o in piazza era uguale… gli errori li cominciai a capire quando dal paradiso mi stavo ritrovando all’inferno. Infatti oggi, ai miei giocatori, cerco sempre di fargli capire che bisogna sapere aspettare il proprio momento”.
Nella Reggiana
Dopo l’addio all’Inter?
“Andai al Campobasso in prestito, come allenatore c’era Tord Grip, un riferimento di Eriksson. L’Inter mi mandò lì in prestito, perché voleva seguire il mio percorso professionale. Quell’anno retrocedemmo ai rigori, sarei dovuto restare all’Inter. Ma ci fu l’avvento di Casillo nel calcio, al Foggia. Fece di tutto per comprarmi dall’Inter, inizialmente rifiutai. Poi ad un certo punto mi sembrava poco cortese dire di no al direttore Pavone e così sparai una cifra talmente alta che pensai «Si tirano indietro… ». E invece il Foggia senza neanche parlare mi accontentò, paradossalmente mi fecero un contratto più alto rispetto a quello dell’Inter. Ma in quell’anno il Foggia era uno squadrone, voleva vincere. Non era una squadra da serie C, ma da A. Avevano preso Barbuti, Scienza, me, Franco Baldini, De Marco, Barone. Poi però, un po’ per il carattere di Casillo e dell’allenatore, Marchioro, nelle ultime partite di campionato venne esonerato il mister e cominciarono i disastri. Io presi le difese del mister e venni sbattuto fuori rosa, non andammo in serie B e la stagione dopo avevo ancora due anni di contratto, ma non volevo restare. Ma arrivò Caramanno come allenatore e mi se come condizione imprescindibile la mia permanenza.
Gli dissi «Mister, per lei mi faccio tagliare braccia e gambe. Ma con questo presidente io qui non ci rimango». Rinunciai ad un contratto da centoquarantamilioni di lire all’anno per altri due anni, per andare a giocare a Licata in B per andare a prendere sessantacinquemilioni. Nella mia vita i soldi non sono mai stati una priorità. Se avessi seguito delle regole diverse dal mio modo di pensare avrei guadagnato di più, magari mi sarei divertito anche di più. Oggi non rifarei certe scelte, anche se magari me ne sono pentito. A Licata feci una stagione spettacolare, partimmo alla grande e tutti pensavano che potessimo andare in serie A. Poi ci furono una serie di incomprensioni tra società e allenatore, ma ci salvammo tranquillamente. Avevo il contratto di un anno, mi volevano Lazio e Atalanta. Ma lì poi, anziché andare in serie A, feci una scelta di cuore”.
Andò al Palermo…
“Sì, era l’anno della ricostruzione. Mio padre mi portava in curva, il mio legame con il Palermo è qualcosa che parte da lontano. Per me, giocare in rosanero, era un sogno. Tornavo a casa, da giocatore affermato. Ma fu l’errore più grande della mia vita”. Perché? “Ero l’unico palermitano della squadra dei titolari, la città aveva tante aspettative. Non giocavamo alla Favorita, ma a Trapani e facemmo un’annata importante in cui però non riuscimmo a centrare l’obiettivo promozione in serie B. E non solo, all’inaugurazione della Favorita prima del Mondiale del ’90, la squadra perse ai rigori contro la Lucchese la finale di Coppa Italia. Ma fu una serata spettacolare, allo stadio c’erano quarantatremila spettatori: una notte indimenticabile, magica. Ancora a parlarne adesso ho i brividi. Ma quell’anno io capii che per me non era più il tempo di stare a Palermo: succedevano le cose positive ed era merito di chi veniva da fuori, quando c’erano i problemi invece dovevano risolverli i palermitani. E poi c’è una cosa che non ho mai sopportato: sono molto legato alla mia città, quando arrivano i giocatori da fuori i tifosi si fanno ammazzare per loro, poi ci sono i palermitani che non vengono amati. Dai suoi figli, Palermo, pretende tanto. La gente si ricorda di gente come Biffi, Chimenti… dimenticando di Schillaci, Tommaso Napoli, Compagno, Parisi, Vasari. Questa cosa non la capirò mai, mi fa stare male. Palermo deve cominciare ad amare di più i propri figli. La gente ce l’ha con Zamparini, ma il presidente al Palermo ha fatto vedere il calcio vero. I tifosi che cosa hanno fatto? Il primo anno trentottomila abbonamenti, poi meno della metà. A Napoli invece lo stadio è sempre pieno.
I palermitani dovrebbero ringraziare Zamparini, che ci ha fatto divertire. Ma se non diamo non possiamo ricevere. Per diventare una realtà importante ci vuole senso d’appartenenza. È un po’ come la storia del centro sportivo… il Palermo non ce l’ha. Ma di mezzo c’è la politica: trent’anni fa il Palermo una casa ce l’aveva, si chiamava Castelnuovo, vicino lo stadio Barbera. Oggi ci sono gli nomadi, una volta c’erano sei campi di calcio in erba. La politica ha rovinato tutto… possibile che non si riescano a sistemare i nomadi e restituire la casa al Palermo? I politici ti rispondono «E ci vai tu a far spostarli?». Cose che non capirò mai. E poi ci lamentavamo se Zamparini vendeva Pastore e Cavani. Ricordiamoci Cavani lo ha venduto anche De Laurentiis, per sessantatremilioni…”.
Lei ama le sfide. Fu il primo giocatore italiano ad andare in Indonesia. Se le dico Pelita Jaya?
“Correva l’anno 1995. Si era suicidato da poco mio suocero. L’anno prima ero stato dato in prestito dalla Reggiana al Venezia di Zamparini, a fine prestito ero in trattativa per la risoluzione del contratto. Trattavo con la Pistoiese, ma un mese prima dell’inizio del ritiro un procuratore italiano che viveva a Reggio Emilia, Salvatore Trunfio, venne al campo e mi disse «Ci vuoi andare a giocare in Indonesia?».
E sa perché andai a giocare in Indonesia? Provo ad immaginare: Sandokan? “Sì, esatto. Davvero, non scherzo. Ero affascinato da Sandokan, pensai «se mi danno i soldi vado in Indonesia». Incredibile, accettarono le condizioni. Risposi al procuratore, che si fece risentire dopo un po’ di tempo «Se entro mezzanotte mi fai avere il contratto chiedo scusa alla Pistoiese, non firmo e gli spiego che per me sarebbe meglio anche portare via mia moglie dopo quello che è successo». Alle 23.45, una sera, mi arrivò il contratto via fax. Il rullo girava, andava avanti. C’era il contratto da cinquecentomila dollari. Chiesi scusa al ds Salvatori e presi l’aereo per l’Indonesia. Arrivai a Giacarta e subito, in aeroporto, fu come se fossi a casa (ride, ndr). Iniziarono a dirmi «Suka», che in siciliano è una parolaccia, ma in indonesiano vuol dire «Piacere di conoscerti», all’epoca non lo sapevo. E ci fu un piccolo equivoco (ride, ndr). Mi ritrovai a firmare il contratto al quarantesimo piano di un palazzo megagalattico. L’Indonesia mi ha cambiato la vita”.
Cosa si porta dietro di quell’esperienza?
“Ancora oggi sono in contatto con delle persone che conobbi all’epoca, me le sono ritrovate nel mio percorso futuro, appese le scarpe al chiodo. Sono sincero, lì trascorsi un anno e mezzo spettacolare, poi ebbi la fortuna di giocare con due dei giocatori che hanno fatto la storia del calcio: Mario Kempes e Roger Milla. Con Kempes nacque un’amicizia importante. Poi lì scoppiò la rivoluzione, fui costretto a ritornare in Italia. In Indonesia conobbi una persona, Roberto Regis Milano, che faceva trading in Indonesia. Mi contattò, chiedendomi quale fosse l’occasione migliore. Subito andammo a trattare la Reggiana, ma non trovammo l’accordo. Poi saltò fuori l’occasione Torino. Mi ritrovai subito, da calciatore a dirigente del Toro: ero diventato il responsabile dell’area tecnica granata, nel 1996. Potevo decidere tutto quello che volevo, ma non avevo l’esperienza, la caratura, per gestire una società del genere. Mi accodai a delle persone che all’epoca erano più competenti.
Ma ho un rimpianto…”. Cioè? “Un giorno andai a Parigi da un amico, che mi portò a vedere dei ragazzi di colore. Vidi un ragazzino che mi fece subito una buona impressione. Gli chiesi «Vuoi venire a provare a Torino?». «Subito», la sua risposta. Dissi ai responsabili del settore giovanile del Toro di provarlo. Dopo una settimana lo bocciarono, così mi feci mettere tutto per iscritto. Telefonai a Leo Mannone, presidente del Marsala, gli mandai questo ragazzino. Sapete chi era? Patrice Evra. Da lì cominciò la sua storia. Intanto il Torino fu venduto, Ciminelli e Luciano Moggi mi proposero il rinnovo di contratto. Ma li ringraziai e presentai le dimissioni. Da un po’ di tempo Beppe Galli e Antonio Caliendo mi stavano addosso, così mi convinsero ad andare a lavorare con loro. Facemmo una società, da cui andai via dopo sei mesi perché il mio modo di pensare era diverso rispetto a quello di Caliendo”.