“Lo chiamavano ‘il frate’, il nome di tutta una vita
segno di una fede perduta , di una vocazione finita”
(Francesco Guccini)
Ricordo ancora adesso con nostalgia le tre annate che militai con i colori rossoneri in quei primi anni settanta tra il 1969 al 1972.
Avevo 16 primavere e tanti sogni nel cassetto, quando dall’Audace di San Sebastiano approdai all’A.C. Thiene e ho ancora ben impresso nella mente come lasciai la squadra da perfetto sprovveduto a 19 anni per andarmene a cercar fortuna altrove in prestito all’U.S. Robur, allora in Prima Categoria, con la riapertura del mercato autunnale nel novembre del ‘72.
Quello che non sopportavo era l’idea di starmene inattivo relegato in panchina in quel campionato di Promozione annata 1972-’73 iniziato da qualche mese e dove il club rossonero era stato appena promosso.
Non capivo ancora, imberbe qual ero, la saggezza intrinseca dell’attesa; aspettare paziente il momento propizio, che sarebbe sicuramente arrivato, per sostituire qualche compagno di squadra acciaccato, riconfermando le mie doti sportive affinate in anni e anni di dieta a base di calcio. Il fatto è che la mia cocciutaggine costrinse l’allenatore Ivo Broccardo ed il presidente avv. Gianni De Muri ad assecondare il mio volere.
Tutto ciò, e lo dico con rammarico, nonostante loro avessero insistito allo sfinimento purché restassi col gruppo a condividere quel campionato fantastico, che poi, mannaggia a me, andarono pure a vincere passando in Serie D (l’Eccellenza non esisteva).
Ma nulla era perduto, perché ero stato ceduto in prestito alla Robur solo per farme i ossi. Poi, purtroppo, giocando con la squadra della Conca ebbi un grave infortunio al ginocchio destro e la mia carriera nel mondo della pelota vicentina si concluse in maniera infausta con la rottura dei legamenti crociati. Ma lasciamo correre i cattivi pensieri perché, ripensandoci bene col senno di poi, la sfiga di un incidente del genere mi poteva capitare benissimo anche giocando con i rossoneri.
Ed è proprio quel periodo trascorso col glorioso Thiene che ricordo oggi più volentieri. Noi giovani della formazione Juniores vivevamo in simbiosi con la Prima squadra che a quel tempo aveva organici limitati. Ciò nonostante il mister era un uomo pragmatico e non faceva certo i conti di inserire noi imberbi solo per abbassare l’età media della formazione.
Diventare titolare nella squadra dei campioni di allora era quasi una chimera, chiusi com’eravamo da giocatori d’età e d’esperienza! Proprio per questo, noi sbarbatelli, ci sentivamo ben motivati nell’esprimerci al meglio per guadagnare la sospirata convocazione e scendere qualche volta in campo la domenica pomeriggio con la blasonata formazione, cercando di batterci alla pari con dei campioni che erano già smaliziati uomini maturi.
Tra loro ricordo che faceva la guardia ai nostri legni l’abile Francesco Meneghello. Davanti a lui a ricoprire il ruolo di libero c’era il leggendario Gino Sardei con un passato da campione in seria A e B. Spiccavano poi due terzini, Augusto Pilastro e Fausto Testolin, anzi, più che terzini, mastini. Corrado Pozzan s’imponeva con eleganza nel ruolo di stopper, mentre, mai domo, Giacomo Valmorbida giocava una vita da mediano. Gildo Carraro giganteggiava a centrocampo ed era pure uno spauracchio sulle punizioni e nel gioco aereo, mentre Lino Vezzaro si esibiva come trequartista giocoliere fantasista.
Incisivo goleador di centrattacco era Renato Cimenti , mentre all’estrema sinistra si destreggiava come rombo di tuono Cattani.
Tra noi Juniores si imponeva in difesa con stile Mariano Fabris, ottimo terzino fluidificante che ha pure fatto carriera, mentre in attacco Pieraldo Dalle Carbonare all’ala destra si inventava, in anteprima, il pressing a tutto campo, mentre Enzo Manuzzato, mezzapunta brasiliana e rifinitore d’eccellenza, primeggiava in tutta la provincia nel ruolo suo più consono.
Ma tanti sono i volti che ho impressi nella mente che si riferiscono ai vari anni a cui dovrei chieder venia per non aver citato. Uno fra tutti, però, lo voglio ricordare. Si tratta di una guida spirituale per noi novizi calciatori attaccanti: Frà Ernesto Marchioro da Malo , un centravanti laico a quel tempo indomabile leone, impareggiabile acrobata della rovesciata volante e grande attore dell’area di rigore.
Sì, capisco! Altri tempi, altre regole, altri ritmi! Stiamo parlando di preistoria calcistica basata soprattutto sulla tecnica individuale più che sull’espansione polmonare e prestanza fisica del collettivo. “Scordiamoci il passato!” commenterà qualcuno.
Difficile, però, per noi ormai Seniores sconfiggere questa maledetta nostalgia e il ricordo memorabile di un’età giovanile in cui si gustava l’emozione ingenua del premio partita vivendo in un periodo d’economia di sussistenza fatta semplicemente de pan e balon. A proposito di Ernesto Marchioro: lo chiamavano “il frate” perché la leggenda racconta che quasi in clausura stava per prendere i voti, ma che crescendo poi abbia gettato le vesti alle ortiche per cambiare completamente filosofia di vita diventando uomo di mondo a tutto campo. Era un attaccante d’area che garantiva 20-30 gol a stagione.
Giuseppe (Joe) Bonato