Sandro Ciotti ne ha visti tantissimi: Rivera, Baggio, Mazzola, Del Piero, Riva, Totti. Ma quando gli chiedevi : “Qual è il calciatore italiano più forte di tutti i tempi?”, pronunciava con quella voce inconfondibile sempre lo stesso nome e cognome: Gino Cappello. Poi subito precisava “almeno dal punto di vista strettamente tecnico. Più forte di Meazza e Piola. Peccato che fosse matto come un cavallo”. E lo paragonava a Johann Cruijff. Anche Liedholm la pensava così.
Cresce in una zona popolare di Padova. A dieci anni gioca nell’oratorio al Patronato dei Carmini. Decide la squadra un certo Don Giovanni, che un giorno si avvicina : “Scusami Gino ma devo metterti da parte. Tiri troppo forte e mi rovini l’unico pallone disponibile”. Come una squalifica a vita. Nessun problema, entra nel Gruppo Rionale Fascista Tinazzi e vince anche il campionato . Provino col Padova e rapida acquisizione. Esordisce in serie B il 18 settembre 1938 a diciotto anni, contro la Spal. Passa poco più di un mese e segna il suo primo gol a Venezia con un colpo di testa. Un derby è il battesimo ideale che anticipa quasi quaranta gol in sessanta partite. E lui ormai è per tutti “Capèo”.
Se n’è accorto il Milan, che dal 1939 è diventato “Milano” su input di regime: ci rimane fino al 1943. La prima maglia azzurra la indossa nel 1942, con la Nazionale giovanile a Torino . Doppietta nel 3-0 ai pari età ungheresi. Ma Padova gli rimane nel cuore e nel 1944 ricompare all’Appiani: gioca un campionato tutto veneto contro Venezia, Treviso, Bassano, Mestre, Legnago e Rovigo. Al termine della guerra, lo acquista il presidente del Bologna Dall’Ara per tre milioni di lire più Hector Puricelli.
In mezzo al campo nel Bologna c’è un faticatore che si chiama Ferruccio Valcareggi. Sarà a lungo il compagno di stanza di Capeo e chissà chi li ha accoppiati: si parleranno in tutto due o tre volte. “Mica avevamo litigato. Eravamo così , di carattere chiuso”. Bologna diventa la sua città. Anche se mantiene un forte accento veneto. Apre un negozio di articoli sportivi. Stabile il quadro della famiglia Cappello, con la moglie Iva e una figlia che si chiama Edda. Abitano in via Toscana.
Viene fuori prepotentemente: il 2 novembre ’47 con una splendida punizione a foglia morta ante litteram batte Bacigalupo del Torino. Si appropria della fascia di capitano, pur sapendo di non avere l’imprinting del leader.
A Bologna si va allo stadio quasi solo per vedere le sue accelerazioni, espressione di una cifra atletica devastante. Per apprezzare le collisioni tra i difensori intontiti dalle sue finte . Per i suoi gol e gli assist, la visione di gioco . Oppure soltanto per quei due piedi che gli permettono di puntare l’uomo e saltarlo come vuole. E se vuole. Anche se nemmeno lui sa quando.
Rimane intere giornate senza aprir bocca . E la domenica è fisicamente in campo, ma in realtà alza un muro tra sé e la partita. Un muro invisibile, percepito facilmente. Come durante la settimana nello spogliatoio. Lui non entra nel gioco. Lui si manifesta. Non si tratta di mancanza di volontà, ma solo di incapacità congenita di mantenere la concentrazione per novanta minuti: “Ogni tanto il mio fisico o la mia testa o entrambi hanno bisogno di staccare la spina”.
Capeo ha fisico da centravanti di sfondamento ma movenze da mezza punta. Finirà così diviso tra una carriera da numero 9 e una da mezzala . Come tra giocare e assentarsi . Senza pudore , nel perverso incantesimo dei fuoriclasse. Pare che una volta si sia fermato in mezzo al campo a guardare un aereo che lo sorvolava: “Gino, è finita la guerra”. Quello che lui vede solo come un gioco, rischia di soffocarlo e sono le sue assenze il modo silenzioso di difendersi.
E può trovare quell’ispirazione che tiene insieme la sua partita. Ad alcuni, Capeo non sembra nemmeno un calciatore. Per altri è semplicemente il calcio. In fondo anche Sandro Ciotti diceva che in un anno sono due o tre le partite veramente interessanti su settanta .
Ritrova la carica nei tornei amatoriali, perché probabilmente non vi avverte pressioni . Può quasi tornare bambino e la nenia lascia più spazio alla vera arte pedatoria. Curiosamente trascina subito il Bologna allavittoria della Coppa Alta Italia, un torneo di fine stagione. E segna addirittura ventuno (secondo alcune statistiche ventidue) volte in 13 partite. Nel ritorno della finale il Bologna seppellisce di gol il Novara: tre sono suoi.
I compagni ne captano l’indole generosa. Lo torturano con gli scherzi, ma Capeo non reagisce. Il risultato delle partite del Bologna dipende soltanto da lui, lo ammetteranno. Quando qualcuno di loro ha problemi economici e aspetta il premio partita, la domenica mattina si avvicina a lui e lo implora: “Gino pensaci tu”. Esce dal torpore e diventa decisivo. Mettendo sempre il becco in un paio di salvezze sofferte del Bologna. Spettacolare il gol al Modena con un volo d’angelo. Lui non esercita alcun potere. Ma non aspetta altro che prendersi la squadra sulle spalle, senza ammetterlo nemmeno a se stesso.
A giugno ’48 viene coinvolto di striscio in un tentativo di illecito: il Napoli ha bisogno di punti ed espugna Bologna al novantesimo . Rapida inchiesta e Napoli retrocesso in serie B con annesse squalifiche a vita per alcuni dirigenti partenopei. Capeo becca solo due mesi. Il 24 aprile 1949 in Juventus-Bologna accade di tutto.
Giornata nuvolosa con ventilazione inapprezzabile , avrebbe detto Ciotti. Nell’intervallo inizia a piovere. I rossoblù sono avanti 2-1, grazie a due gol dell’ungherese Istvan Mike, inframmezzati da uno un po’ fortunoso di Boniperti. Il Bologna ha anche colpito due pali. L’arbitro Carpani ha appena sorvolato su un clamoroso fallo in area juventina. Passano tre minuti e decreta un rigore per la Juve. Si prova a mettere il pallone sul dischetto, ma i giocatori rossoblù sono inferociti: viene cacciato subito Taiti, seguito da Marchi, che per ben tre volte butta via il pallone. Lo juventino Manente può finalmente eseguire, ma Taccone calcia nella sua rete in segno di protesta. Fuori anche lui. Bologna in otto uomini e la concitazione cresce. Arriva Capeo e trascina il suo portiere Vanz fuori dai pali: la Juve deve tirarlo a porta vuota. Alcuni compagni protestano e iniziano a lasciare il terreno di gioco, mentre i giocatori juventini non sanno che fare. Partita conclusa. Sarà 2-0 a tavolino : Carpani relazionerà che Gino Cappello voleva ritirare la squadra. Lui si difende dicendo che voleva ritirare solo il portiere. Gli danno appena due giornate.
Poco più di un mese dopo, il 22 maggio, si gioca Italia-Austria a Firenze. La squadra azzurra porta addosso le ferite della tragedia di Superga. Sono passati solo diciotto giorni. La Federcalcio vuole commemorare adeguatamente i granata. Sono venuti in ottantamila. Giochiamo stupendamente per novanta minuti e con una squadra mosaico. I giocatori provengono infatti da sei squadre diverse. In campo un esordiente che sta per compiere ventinove anni. Ha il numero 10. Riceve il pallone al limite dell’area al quarto d’ora. Finta col destro, mette in ginocchio due avversari e infila l’angolo del portiere austriaco col mancino. E’ il gol che dice che il nostro calcio è vivo. Lo segna lui.
Secondo Sandro Ciotti, la sua miglior partita è quella del10 maggio 1950 con la Nazionale B. Stadio San Siro, 40.000 spettatori a vedere l’Inghilterra. Dovrebbe marcarlo un certo Crosland del Blackpool, ma non lo prende mai. Forse nemmeno lo vede. Lui fa doppietta. Prende anche una traversa clamorosa che procaccia il gol di Boniperti e regala l’assist per quello di Burini. Finisce 5-0. Capeo deve andare ai mondiali in Brasile. A trent’anni intanto lo vogliono tutti. Anche due squadre inglesi. Una è il Leicester, che gli offre un ingaggio di trentacinquemila sterline.
Dopo Superga nessuno voleva prendere l’aereo: diciotto giorni di nave, in cui l’Oceano inghiotte palloni ed energie. Arriviamo al Mondiale “intontiti, letteralmente cotti e sbiellati”. La Svezia ci batte e lui quasi non tocca palla. Tranne quando smorza (con la natica) un tiro in porta di Boniperti . Al ritorno confessa con la sua flebile voce nasale : “Io non riesco a ricordare bene se in Brasile ho giocato oppure no. Ho la testa tanto confusa”.
La stagione migliore è quella ’50 – ’51 : sedici gol. Curiosamente anche i campionati del Bologna sono all’insegna della discontinuità. Stavolta arriva settimo dopo essere stato in testa e aver battuto il Milan del Gre-No-Li che vince lo Scudetto. Una delle pause del Bologna e del suo capitano è quella in casa con la Juve, che passa per 5-0.
Ma quella più lunga che si concede Capeo è sempre contro il Padova. Anzi, non riesce proprio a giocare all’Appiani dove è cresciuto: “Oggi ho giocato male vero? Ma con che faccia avrei guardato negli occhi i padovani se mi fosse scappato di segnare un gol?”.
E’ attratto dal commercio pur non avendone l’attitudine. Lancia una linea di palloni con il suo nome. Li vende nel suo negozietto di via Monari. La maglia azzurra chiama: Firenze, 18 maggio 1952 e c’è Italia – Inghilterra. Lui ha la maglia numero 11. E’ la partita d’addio di Piola alla Nazionale e tutti aspettano un suo gol. Ma quando in apertura tira forte nell’angolino, si ritrova sulla traiettoria proprio Capeo, che vanifica tutto. Il pubblico non gradisce. Lui gioca novanta minuti senza fissa dimora: “Mi gavevo un gran sonno”. Finisce 1-1. Ma il Bologna lo salva ancora lui. Il peggio però accade in estate.
Il “Palio calcistico petroniano” è un imperdibile torneo dell’estate bolognese a scopo benefico . Le squadre, che rappresentano i rioni cittadini, schierano anche parecchi giocatori di serie A, alcuni sotto falso nome per evitare le multe dei club d’appartenenza. La sfida della sera del 5 luglio al Comunale è tra Bar Otello e Bar San Mamolo. Capeo gioca per il Bar Otello, che è da sempre covo ufficiale dei tifosi rossoblù. Diecimila sugli spalti, altro che amatoriale. Una settimana prima il malore che coglie il presidente Dall’Ara è il presagio. L’arbitro Walter Palmieri forse sorvola su un paio di rigori per il Bar Otello. Poi al trentasettesimo del secondo tempo, in una zona non ben illuminata, nasce una mischia e l’arbitro cade a terra come fulminato. Finisce all’ospedale con una lussazione e indica il colpevole. Si cerca di negare la stessa presenza in campo di Capeo reclutando un sosia, tal Luigi Montanari, ma non ci crede nessuno. Due settimane dopo, la Lega squalifica Gino Cappello a vita. Pena rapidamente confermata in appello.
Palmieri va in giro addirittura col bastone. E relaziona di un’aggressione deliberata con un pugno alla schiena e un calcio al piede destro . Poi sarebbe stato travolto dal giocatore e schiacciato dai suoi ottantadue chili. Al presidente Dall’Ara per poco non viene un altro collasso. Tra l’altro aveva espressamente vietato a Capeo di prendere parte al torneo. Lui ammette l’urto, ma del tutto involontario. Sembra un’altra condensa di sentimenti inespressi, come nel rigore contro la Juve. Ma non molla e ricorre in sede civile. La città e la squadra sono dalla sua parte. Anche la stampa nazionale. E anche quei tifosi che, pare, siano andati a minacciare Palmieri.
Il rapporto dei Carabinieri dice che manca l’ intenzionalità, l’urto è stato involontario. Ai primi di settembre, davanti al Pretore, Capeo arriva con gli occhi rossi di pianto. Sembra invecchiato. Un giornalista si avvicina: “Dai Gino, sei tutti noi”. “Lo ero una volta”. Ma l’arbitro Palmieri ritratta: non è più sicuro della volontarietà dell’imputato. E nega di aver ricevuto pressioni. Forse davvero Capeo cercava di liberarsi di due difensori e l’ha colpito accidentalmente col suo fianco destro. Il suo avvocato porta in aula perfino gli scarpini da gioco e la perizia gli dà ragione: nessuna traccia di impatti violenti. Gino Cappello, imputato del delitto di cui all’articolo 582 del Codice Penale, viene assolto per non aver commesso il fatto. Si gira dall’altra parte, ci sono gli applausi. Poi viene quasi portato in trionfo da migliaia di tifosi rossoblù. Palmieri esce scortato dalla celere. La giustizia sportiva dovrebbe tenere in considerazione quanto deciso dal Pretore, ma bisogna attendere quasi sei mesi. Intanto il Bologna multa Capeo. Che da luglio ha perso lo stipendio. La moglie Iva gli sta vicino, la piccola Edda s’interessa per la prima volta alle vicende calcistiche . Hanno venduto un terreno e licenziato la donna di servizio. Lui molla anche la Lancia e prende una Topolino usata. Sul negozio non possono contare, i palloni “Cappello” non vendono più.
Si allena da solo. Esce di mattina presto con una tutaccia del Bologna e va in un campetto di periferia. Poi col Modena e col Forlì. Dopo cinque mesi gioca una partita con la squadra delle riserve del Bologna contro i titolari. E un giornale sportivo lo indica prudentemente con una “X” nell’attacco delle riserve. Che quel giorno vincono 3-1. Proprio il giocatore X fa due assist decisivi e un gol saltando cinque avversari. Sabato 7 febbraio ’53, all’ora di pranzo, tutta la famiglia Cappello è riunita in attesa della sentenza del Consiglio Federale. Ovviamente davanti alla radio di casa. Sopra c’è il suo ritratto con la maglia azzurra. Il giornale radio non dice nulla. Finito di mangiare, tocca al notiziario emiliano che annuncia la riduzione della squalifica a un solo anno. Iva lo abbraccia, Edda piange. “Abbiamo finito di soffrire”. Lui parla poco coi giornalisti. Dice solo: “Mi magno el balòn se vado in campo”.
Rientra in condizioni splendide nella stagione ’53 – ’54. Gli tocca anche svezzare il giovane Pivatelli. “Giocargli vicino era bellissimo e qualche volta impossibile. Ti dava la palla gol, ma non sapevi mai cosa gli passasse per la testa . Vedeva spazi che altri non vedevano, andava capito. Per esempio lui si bloccava se chi giocava con lui, non lo seguiva”. Dirada le sue pause. Gioca trentaquattro partite con dodici gol, di cui uno indimenticabile: a Firenze irride tutta la difesa viola, quella che viene trapiantata in Nazionale. E a casa, simbolo della rinascita è l’arrivo della piccola Nelly . Adesso lui e Iva hanno due figlie.
Torna in azzurro a furor di popolo. Ma ai Mondiali gioca solo la partita stravinta contro i belgi. Lo lasciano fuori in quella decisiva contro la Svizzera: perdiamo e andiamo a casa. Lui sussurra: “Se giocavo io, quelli là,li avremmo fatti a pezzetti. Perché il più forte sono io”.
Gli ultimi mesi al Bologna gioca a scartamento ridotto , vittima della sciatica e dell’agguerrita concorrenza di giovani come Pascutti. Va al Novara, ma ci rimane soltanto due anni. Torna a Bologna e non è cambiato nulla. Come fosse soltanto uscito a prendere le sigarette. Fino a quarant’anni gioca nel Cral dei tranvieri bolognesi . Con un altro gol splendido suggella una vittoria per 3-1. A fine partita i suoi fedelissimi vogliono festeggiarlo, ma lui non parla neanche. Certo non è un inedito. Ma i suoi proverbiali silenzi stavolta non bastano. Non possono più proteggere qualcosa di meraviglioso più di qualunque partita e di qualsiasi campionato: si viene a sapere che la sua Nelly in realtà è una bambina orfana che aveva adottato. E decodificare tutti quei silenzi adesso è quasi inutile.
Apre una tabaccheria in via Castiglione, pieno centro storico . La gestisce con la moglie Iva e altri parenti. L’esperienza come dirigente del Genoa si conclude con l’accusa di illecito sportivo. “Ma io mi limitai a presentare un amico a un altro amico”. Abulico anche nella difesa, viene di nuovo radiato. Ottiene la grazia quando non gl’interessa più.
Diceva Charles Peguy che “le persone oneste si riconoscono dal fatto che compiono le cattive azioni con più goffaggine”.
Ernesto Consolo
Da Soccernews24.it