L’uomo che fu comprato due volte dal Parma: la prima costava otto miliardi e non se ne fece niente, la seconda cinquantacinque e quella fu la volta buona.
La prima volta era l’estate del 1995, c’era l’accordo, c’era il contratto, c’era il sì del Partizan Belgrado, c’era lui che era pronto a partire, ma qualcosa all’ultimo momento andò storto: il Parma lo comprò, non lo tesserò e lo girò all’Aston Villa.
La seconda volta, cinque anni e molti miliardi dopo, Savo Milosevic finalmente arrivò. Il Parma lo comprò dal Real Zaragoza: aveva segnato trentasei gol in due anni, aveva appena vinto con Kluivert la classifica dei cannonieri a Euro 2000.
Aveva un contratto con il Real Zaragoza fino al 2003. La sua clausola rescissoria era di settantadue miliardi. Il Parma versò cinquantacinque miliardi agli spagnoli e fece firmare a Savo Milosevic un contratto di sette miliardi netti a stagione, per sei anni. Un affarone, no? Lo chiamavano “il Van Basten serbo”: dell’olandese aveva le gambe da fenicottero e una certa linda arroganza nel porsi, arroganza non sostenuta dalla classe, però.
Fisico pesante, quando si girava in area pareva di sentirlo cigolare: segnava gol rabbiosi, come se dovesse sempre dimostrare qualcosa a qualcuno. Savo Milosevic arrivò in Italia e disse: “Posso fare più di venti gol a campionato”. Non li fece. Mugugnò molto, passò svariate domeniche infagottato in panchina, non convinse mai.
L’azione più degna di essere ricordata la fece un pomeriggio di ottobre quando prese un aereo e partì per Belgrado.
Doveva fare una cosa. E doveva farla subito. “Non posso più restare a guardare”, disse.
Arrivò a Belgrado, incontrò alcuni amici, parlò come parlano i sopravvissuti, che quando si guardano negli occhi, dentro ci vedono tutte le storie che sono passate di lì, e quelle storie, per lui, serbo nato a Bijeljina e vissuto da sempre in Bosnia, erano immagini ben precise, che facevano male.
Così si mise addosso una maglietta, e disegnato sulla maglietta c’era un pugno, il simbolo dell’opposizione al regime di Slobo Milosevic. E poi giocò una partita di calcetto, in piazza, a Belgrado. Era un modo come un altro di dire: basta alla guerra.
Se ne andò dall’Italia nel gennaio del 2002, tornò in Spagna, nel Real Zaragoza. La guerra in Jugoslavia stava finendo, un po’ alla volta.
Furio Zara