Quel che resta dell’Iran ‘78: la storia di Eski
Ott 19, 2022

Il 9 aprile 1980 al Lockhart Stadium di Fort Lauderdale in Florida, i Cosmos sono ospiti degli Strikers. Lui è al suo solito posto, diligente sulla fascia di competenza. Finchè un tifoso non piomba sul campo e va dritto verso di lui. Gli urla qualcosa. Sono insulti pesanti. Cerca di colpirlo. Entrano in campo tutti quelli della panchina e lo bloccano in tempo. Dura tutto meno di dieci secondi, ma a lui sembra tantissimo.

In Iran, nell’Esteghlal Cultural and Athletic Club

La crisi tra Iran e Stati Uniti la paga anche lui. Dall’altra parte del mondo. Anche se non è nemmeno musulmano. Quando arriva a New York nessuno lo chiama col quel suo nome e cognome così lungo e insolito, Andranik Eskandarian. E’ di religione cristiana ed è figlio di una famiglia armena installatasi in Iran. Ovviamente tutti abbreviano e, per gli americani, lui diventa semplicemente “Eski”.

Di quel periodo e dei cinquantadue ostaggi americani rinchiusi nell’ambasciata di Teheran, Eski preferirebbe parlare poco. E poi, è meglio partire dall’inizio .

Dall’Ararat Tehran, la squadra degli esuli armeni in Iran: “Avevo deciso di giocare a calcio guardando un difensore russo. Anche se non riesco proprio a ricordare il suo nome . Ero alle scuole superiori. Quelli dell’Ararat mi hanno visto giocare e mi hanno chiesto di tesserarmi con la promessa di pagarmi l’istruzione. Tutto quello che ho , lo devo a loro: sono stato tirato su dal nulla, aiutato a crescere”.

Nella Nazionale iraniana

Eski è un terzino, indifferentemente a destra e a sinistra. La sua naturale eleganza permette pulizia nell’intervento : ”Poi sono andato a giocare al Taj Tehran ed è arrivata la chiamata in Nazionale. Avevo trovato intanto lavoro come disegnatore meccanico, perché in Iran ovviamente non era calcio professionistico. Per esempio, il mio amico Nasser Hejazi era il portiere della Nazionale da anni, ma aveva conseguito la laurea in economia e commercio. Così poteva gestire un suo studio professionale”.  

Mundial ’78, lo storico pareggio dell’Iran contro la Scozia: tackle di Gemmill su Nazari

Per il gran caldo gli allenamenti della Nazionale vengono fissati alle cinque del mattino . E nelle qualificazioni per Argentina ’78 le vincono quasi tutte . Il 25 novembre 1977 c’è la partita della storia, contro l’Australia. Infatti nello stadio di Teheran li aspettano in novantacinquemila: “Noi stavamo meglio atleticamente . Abbiamo vinto 1-0 e ci siamo qualificati. Era più difficile , non come adesso. Perché ai mondiali andavano solo sedici squadre”.

Eskandarian nei Cosmos di New York

L’impatto con il mundial è straniante, forse ancora più del previsto. Li va a vedere anche il figlio dello Scià, ma non basta: “Non ci aspettavamo un miracolo . Eravamo arrivati imbattuti e dopo un’infinità di partite. Eravamo proprio scarichi, appagati. L’impresa vera era arrivare fino a lì e noi l’avevamo fatta”.

Nella prima c’è l’Olanda dei grandi e si perde 3-0. Poi la Scozia, che prenota la goleada: “Ci teneva su l’orgoglio. E volevamo farci rispettare”. Eski deve marcare Kenny Dalglish. C’è una palla lunga. Il suo amico Nasser Hejazi esce dai pali e s’incarta. Gli butta la palla addosso : Eski perde l’appoggio. Sta per cadere. Tenta di calciarla per salvare la porta vuota. E fa autogol.

Rischia di perdere la testa. Prende un giallo.

Un deciso intervento su Maradona

Poi torna su Dalglish e lo cancella letteralmente dal campo. La matricola è organizzata, viene su bene: aggiramento e gol di Danaeifard, 1-1.

In azione, sempre con i Cosmos

Gli scozzesi s’infuriano. Piovono palle in pezzo. Cambio: fuori Dalglish che continua a non beccar palla ed Eski passa a marcare Joe Jordan. Anzi, lo squalo: “Sono la metà di lui. Provo a fermarlo , a dargliene un po’, soprattutto quando saltiamo.  Lui s’incazza. Forse bestemmia. Mi hanno raccontato che ha sputato addosso a Kazerani”.

Con i figli al Giants Stadium nel 1982

Scozia-Iran finisce 1-1: all’aeroporto di Teheran è un trionfo. Eski a quel punto all’Iran poteva chiedere qualsiasi cosa. E diventare qualunque cosa. Anche un politico . Era il premio per tutti gli eroi del mondiale. Quello era il momento in cui contavano, ma stava arrivando il momento in cui avrebbero iniziato a contarli.

“Eski” oggi

C’è una lettera dall’America: Eski viene gentilmente invitato a far parte della selezione del Resto del Mondo allenata da Menotti. Il 30 agosto ’78 si batteranno contro i Cosmos di New York che hanno appena vinto il campionato.

Eski se la gioca bene coi suoi piedi da centrocampista . Ai Cosmos serve urgentemente uno nel suo ruolo: lo vogliono rivedere. E’ il 9 settembre, allo stadio dei Giants: si gioca un’amichevole tra i Cosmos e il Boca Juniors. “Ho pensato: ma sì, in fondo è solo un’ora e mezza di gioco”. Eski viene schierato dal primo minuto, terzino sinistro. Prima del fischio d’avvio, dà un’occhiata al tabellone dietro la porta sud dove (a colori) è possibile rivedere l’azione dei gol. Ha un’istintiva diffidenza per il terreno sintetico . Per quelle strane linee orizzontali e quei numeri grossi che segnano le yards. Ma si adegua in fretta.  Al quarantesimo avvia l’azione del primo gol di Chinaglia. Anche se sembra quasi un touchdown.

E’ fatta, gli chiedono di rimanere . Mostra solo un sorriso di pudico compiacimento: “Ne ho parlato con mia moglie e abbiamo concluso che la scelta migliore era stare qui. L’ho saputo fin dal primo giorno”. Nella retroguardia si unisce ai signori Franz Beckenbauer, Carlos Alberto. E poi a Wim Rijsbergen . In panchina c’è un sudafricano che è anche italiano. Eski in quella composizione surreale sta come un guanto: “Avevamo settantamila persone fisse alle partite. Avevamo il jet privato . Una squadra di stelle , undici nazionali. Giocavamo e io mi sentivo proprio come un bambino coi suoi giocattoli  . Un gran bel gruppo, ci siamo rispettati. Davvero non c’era nessuno che non mi piacesse. Non è possibile trovare in questi giorni una squadra che abbia viaggiato così tanto con così tante star provenienti da così tanti paesi andando così d’accordo. Anzi , eravamo amici . Oggi non potrebbe accadere”.

La risi degli ostaggi in Iran

Bersaglio degli scherzi è Chinaglia: “Durante una tournèe in Sudamerica cercavamo di scoprire il numero di camera d’albergo di Giorgio. L’abbiamo fatto in tutti gli hotel: Perù, Argentina, Bolivia. E tutte le volte, lasciavamo un biglietto dietro la sua porta con scritto: Judy ti ama. Giorgio si sedeva a pranzo con noi e raccontava: ‘Ci credi quanto sono famoso? Ovunque vada, c’è un messaggio per me da una donna. Mi seguono'”.

Un uomo, a Washington, espone un cartello durante una protesta per la crisi degli ostaggi in Iran. Sul cartello si legge “Deport all Iranians” (Deportate tutti gli iraniani) e “Get the hell out of my country” (Andatevene dal mio paese); nel retro del cartello si intravede la scritta “Release all Americans now” (liberate tutti gli americani ora).

Giorgio lo scopre solo al rientro negli States: prende tutti i vestiti di Eski e li affoga nella doccia.  “Ero abituato a viaggiare in continuazione. Noi calciatori siamo un po’ zingari. E con la nazionale iraniana avevo girato ottanta paesi. Per me, gli Stati Uniti erano solo uno dei tanti. E poi io sono armeno e la mia gente ha sempre dovuto soffrire : maltrattata in Iran, massacrata dai Turchi. Il fatto di dovermi adattare a una nuova cultura non mi ha spaventato”.

Un primo piano con la maglia dei Cosmos

Ma ad ogni controllo dei documenti lui è quello che guardano di traverso. Ed è l’unico: “Quando è avvenuta la rivoluzione di Khomeini , stavo viaggiando coi Cosmos per un’altra tournèe in Brasile. Non capivo niente. Leggevo soltanto articoli in portoghese, foto in portoghese. Ero davvero triste, perché ero troppo lontano” . Diventa come una scialuppa, dispersa in acque internazionali: “Poi c’è stata la questione degli ostaggi e la guerra contro l’Iraq. Sono iniziati quindici anni di sofferenza per me perchè la tensione fra Iran e Stati Uniti è salita al massimo. Ma in campo riuscivo a stare sereno: perchè quando giochi, dell’avversario e di quello che rappresenta, non te ne frega nulla”.

Al riparo della fascia vince tutto quello che c’è da vincere. Ma anche a quello era abituato . E per lui quel rettangolo verde rappresenta l’unico luogo in cui tacciono le armi. Come le Olimpiadi di una volta: “Io non sono un politico. A me di loro non piace nessuno. Ma volevo tornare a casa. Anche se non sapevo se chiamarla ancora la mia casa. In Iran mi consideravano un armeno. E in America anche adesso qualcuno mi considera un iraniano. Per fortuna, New York accoglie tutti senza andare tanto per il sottile. Il fatto che io fossi armeno e cristiano ha molto facilitato il mio inserimento”.

In fondo aveva già perso la Nazionale accettando i Cosmos. Lui ha avuto la possibilità di scegliere. Altri di quella Nazionale no. Perché Eski ha provato a riannodare i fili della sua squadra: come con Habib Khabiri, quello che ha segnato al Kuwait l’ultimo gol delle qualificazioni. Dopo il mundial è stato il capitano . Pare che Habib si sia rifiutato di scendere in campo portando un grande ritratto di Khomeini: è stato arrestato, torturato. Fucilato. Aveva meno di trent’anni.

Faceva parte dei Mojahedin del Popolo. Suo fratello Mohammed Khabiri aveva già lasciato la Nazionale prima dei mondiali. Si racconta lo seguissero un po’ troppo da vicino i servizi segreti dello Scià. Perché erano altri tempi. Talmente diversi da sembrare uguali. E Mohammed è fuggito all’estero. Come Hassan Nayebagha e Bahram Mavaddat, che adesso sono nell’ opposizione al regime degli ayatollah. Come il bomber Majid Bishkar, che ha fatto finta di andare in India per motivi di studio.

Quei compagni sono diventati fantasmi. Anche se terribilmente veri:  “Cercavo disperatamente qualche notizia di Nasser Hejazi, il mio amico portiere. Proprio lui, quello che mi fece fare autogol. Dopo i mondiali l’avevano preso al Manchester United, ma non aveva ottenuto il visto da Teheran. Quando ha smesso di giocare, ha criticato più volte il regime. Gli telefono e non risponde. Dopo qualche giorno riprovo , ma niente”.

“Qualcuno mi dà un altro numero di telefono: è quello di un ospedale”.

Il leggendario portiere Nasser Hejazi contro l’ Australia a Melbourne, 1977

Finalmente Eski e Nasser possono parlare. Sembra incredibile.  E’ stata l’ultima volta : Nasser è morto di cancro. Perchè Eski adesso i compagni di quella squadra li perde così:  “L’Iran è il mio passato. Chiedo di questo o quel posto: non esistono più.  Ma quello della vittoria sull’Australia è stato il giorno più bello della mia vita. Niente soldi, era solo l’amore per il gioco. E nessuno può comprare questi che sono i miei ricordi. Quindi in qualche modo devo proteggerli”. Infatti lì non è più tornato.

Pensa e parla in armeno. Anche con i figli. Ma ha smesso da tempo di comprendere. E ha deciso solamente di vivere . Forse è stato il calcio a salvarlo. E lui, quasi per ricambiare, ha due negozi di articoli sportivi nel New Jersey: vende scarpe ai calciatori. E, nelle pause, insegna calcio ai bambini. Un giorno qualcuno è riuscito a organizzare un’amichevole tra i Cosmos e l’Ararat Tehran, la sua prima squadra. Una grande festa con tutti i parenti di Eski. Per rendergli l’onore che merita.

Lui ci ha pensato e poi ha deciso: “No, grazie. Io sono uno dal profilo basso. Non mi piacciono queste cose. E per tutta la vita sono stato così”.

Ernesto Consolo

Da Soccernews24.it

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