C’erano i bosniaci e i serbi, Vladimir Jugovic e Dragan Stojkovic. I croati già se n’erano andati: la Jugoslavia, la gloriosa nazionale di Jugoslavia intesa tutta intera, giocava la sua ultima partita esattamente il 25 marzo del 1992. Contro l’Olanda di Rijkaard e Koeman, un 2–0 secco per gli altri, ma poco importa.
Il Paese, la Confederazione, era di fatto già morto con l’indipendenza di Croazia e Slovenia nel 1991; mentre, proprio in quel maledetto marzo, iniziava la terrificante guerra di Bosnia.
E la guerra maledetta, guerra voluta da apprendisti stregoni che danzarono sulle onde di un’inarrestabile crisi economica, non solo uccise il sogno di uno stato unitario degli slavi del sud. Ma, nel suo piccolo, distrusse anche quello che era stato chiamato il Brasile d’Europa. La nazionale di calcio della Jugoslavia già, vincitrice solo un anno prima della vecchia Coppa Campioni via Stella Rossa, simbolo quanto mai riuscito della multietnia con macedoni (Pancev), croati (Prosinecki) serbi (Mihajlovic) e montenegrini (Savicevic), tutt’insieme e spettacolari. E vincitrice del mondiale under 20 nel 1987, con l’incredibile generazione dei Boban, dei Suker e dei Mijatovic. Senza dimenticare l’ingiusta eliminazione ai quarti, Mondiali italiani del’90, ad opera di un’Argentina esclusivamente Maradoniana e calante.
E in quel 1992, la Jugoslavia avrebbe fatto sicuramente un’ottima figura agli imminenti Europei svedesi, se non fosse stata appunto squalificata per le note vicende belliche. E non avesse lasciato il posto alla sorprendente (perché infine campionessa) Danimarca. Sembrò insomma che il calcio slavo si fermasse proprio all’apice della sua maturità, sul più bello, in grado finalmente di incanalare il naturale estro (ecco il Brasile d’Europa) in un’organizzazione rigorosa e quindi vincente.
Dopo aver sfiorato il trofeo continentale contro di noi nel 1968, la Jugoslavia dei primi anni’90, con appunto Boban, Suker, Mihajlovic, Stojkovic, Prosinecki, Mijatovic, Savicevic avrebbe potuto finalmente sbancare dappertutto.
E invece , morta la nazionale, morì anche il campionato, uno dei più competitivi d’Europa, tra la Stella e la Dinamo Zagabria, il Partizan e l’Hajduk Spalato. Per lasciar spazio a cinque (e poi sei) leghe dal sapore regionale, non più attraenti del torneo di Scozia.
Certo, rimane l’exploit della Croazia, terza ai mondiali di Francia e sonda a quelli di Russia lo scorso anno, ma poco altro è stato espresso dal calcio (ex) jugoslavo in questo periodi di tempo.
Sei piccole realtà in luogo di una mediogrande non sono state in grado di generare altro che campioncini da esportazione. Ma, forse ora, lontani gli anni del conflitto e delle divisioni inconciliabili, sono maturi i tempi per poter ammirare quel passato con orgoglio. Da qualunque delle sei vecchie repubbliche si provenga. E guardare differentemente al futuro, pensare oltre artificiali frontiere, vedi la splendida storia del croato Prosinecki che era andato ad allenare la sua (serba) Stella Rossa. Perchè non sia di nuovo utopia una squadra con i Boban, gli Stojkovic, ecc. ecc. del 2032.