Di Angelo Gregucci sappiamo praticamente tutto, il suo passato calcistico e anche il suo presente in panchina, dove è capace di entrare in profondità nello spirito e nell’anima dei suoi giocatori, motivandoli sempre alla battaglia sul prato. D’altronde uno dei suoi maestri, come ci ha confessato, è stato Mircea Lucescu.
Sa pertanto benissimo cosa significhi la maglia grigia: “Prima di tutto è la storia. Poi è anche la mia giovinezza, rappresenta i miei ricordi migliori da giovane. Sono consapevole che l’Alessandria Calcio è un’intera città, la tradizione calcistica, per cui sento la responsabilità di rinverdire un passato ormai sin troppo lontano”.
Lo storico derby con il Casale si materializza come lo spettro dei combattenti che hanno dato vita allo scontro.
“Alla mia epoca sì che era una partita molto particolare, io la sentivo molto, come d’altronde mi esaltavo pure per le sfide contro il Derthona, squadre che lottavano in serie C con orgoglio. In quella mia gioventù che ho ricordato prima, ci sono molte sfide, non solo una. Noi abbiamo sempre avuto rispetto per i Nerostellati, erano sempre partite molto combattute, a volte non bellissime, con i Grigi che dovevano regnare sovrani in provincia e noi cercavamo di vendere cara la pelle”.
Uno dei momenti più densi di pathos era entrare ad esempio al “Moccagatta” esaurito…
“Vero, ma bisogna anche aggiornare la tabella dei tempi. Non c’era la tv, per cui dovevi vedere e assaporare la gara solo allo stadio. Invece adesso il mercato è un po’ diverso, si può anche stare a casa e accendere un computer, vedere Sky, gustarti il calcio non solo nazionale ma anche quello estero. Però quelle con il Casale erano sfide dal sapore particolare, perché il campo era sempre pieno di gente, perché la passione era diversa e secondo me questa passione era più sincera. Adesso stiamo piangendo sui nostri anni, penso che ognuno di noi debba vivere i propri tempi con lucidità, noi possiamo raccontare quelle sfide ma abbiamo qualche capello grigio. I giovani hanno tutt’altro modo di vedere le cose”.
Anche nella vita di Maurizio Ferrarese l’Alessandria ha giocato un ruolo – possiamo dire – materno.
“Mi ha dato la possibilità di andare a giocare a certi livelli e oggi di poter lavorare con il settore giovanile, dopo che negli anni passati ho anche collaborato con l’allenatore della prima squadra. Purtroppo sono passati tanti anni e non si può tornare indietro. Allora c’erano dei valori, ma credo che ci sia stato un cambiamento radicale non solo nel calcio”.
Veniamo al dunque: Ferrarese e il Casale.
“Qualche derby in effetti l’ho giocato (ride, n.d.r.). Sono partite importanti, che hanno un significato e un peso diversi dalle altre gare, lo avevano di più anni fa quando anche il modo di fare informazione era diverso. Oggi le partite finisci per viverle addirittura una settimana prima e poi anche tre o quattro giorni dopo, allora le consumavi solo nel momento in cui giocavi e anche i supporters scaricavano le loro emozioni nella giornata del match. Era quindi un giorno vissuto con un’intensità incredibile”.
Odio o semplice rivalità sportiva?
“Beh, parlare di odio mi sembra un pochino esagerato ma, ripeto, erano sfide non comuni anche se i punti erano sempre due in caso di vittoria e uno in caso di pareggio; erano sfide capaci di darti emozioni forti”.
Le bandiere, i giocatori simbolo per una squadra. C’è ancora posto per loro nel calcio di oggi?
“La storia del calcio è piena di esempi di giocatori che hanno prima indossato una maglia e poi l’altra dell’altra squadra della stessa città. Da calciatore e da professionista quale sei, ti potrebbe anche piacere rimanere sempre nella squadra in cui sei cresciuto, ma non sempre dipende da te, si mettono in ballo mille situazioni, magari non rientri più nei piani societari, non trovi l’accordo e quindi ti accasi altrove. È una situazione non solo voluta ma anche dovuta, perché pensi che hai anche una famiglia. Le bandiere? Qui entriamo a gamba tesa in quei valori che io ho avuto la fortuna di vivere nei tempi passati, e che continuo a sostenere debbano essere una parte importante integrante del mio modo di pensare di fare calcio. L’evoluzione ci ha portato tante cose positive, ma su qualcosa ci ha lasciati indietro. Io ritengo che proprio i valori possano essere un qualcosa di aggiunto per i nostri giovani, che vivono le emozioni a modo loro. Io cerco di trasmettere quello che mi è stato dato in passato, vero è che una volta usciti dal campo loro vivono una realtà che è completamente diversa dai miei tempi”.
La grinta di Ferarrese in un derby al “Natal Palli” di Casale Monferrato.
Inevitabile parlare del “Moccagatta”.
“Mi ricordo che c’erano sette o ottomila persone, per cui tu che giochi sul tuo campo davanti alla tua gente l’urlo di incitamento, l’applauso per una bella giocata o anche il brusio per un errore diventano una scossa importante. Vero è che di questo valore aggiunto possono beneficiare anche gli avversari. Io sono sceso in campo tante volte al ‘Natal Palli’, ma ho avuto la fortuna di giocare con i Grigi, perché con l’Alessandria anche a Casale eravamo veramente in tanti, squadra e supporters come fusi in un’unica entità”.
Mario Bocchio