«Se quel palo sarebbe andato in gol». Scusate la grammatica
Ott 10, 2022

«Se quel palo sarebbe andato in gol». Puntini puntini. E ancora puntini. Il giorno in cui Rizzitelli Ruggiero (con la “i”, si badi bene) si avventurò nella selva oscura della grammatica italiana e smarrì la diritta via della consecutio temporum, il futuro era appena passato. Lo 0-0 di Mosca nella decisiva sfida contro l’Urss (ottobre 1991) aveva di fatto sbarrato all’Italia la strada per gli Europei in Svezia dell’anno successivo e chiuso il ciclo azzurro del Ct Azeglio Vicini, cominciato cinque anni prima con grandi speranze.

Il palo era stata l’occasione migliore per sparigliare l’incontro, per resuscitare un po’ di fiducia, per sovvertire l’inerzia della tradizione negativa, mai una vittoria né un gol nello stadio intitolato, ancora per poco, a Vladimir Il’ič Ul’janov, in arte Lenin. Ma evidentemente era destino. All’orizzonte già si stagliava il febbrile profilo di Arrigo Sacchi, che avrebbe ereditato il testimone da Vicini e innaffiato nuove speranze, ancora più grandi, con il fondamentalismo rivoluzionario della zona pura.

Il palo di Ruggiero Rizzitelli

Rizzitelli era convinto che il proprio errore, se tale si può definire un palo, avrebbe innescato una catena di eventi che in ultima istanza lo avrebbe presumibilmente allontanato dalla Nazionale, e ne ebbe una fugace sensazione di ebbrezza. Non era riuscito a cambiare il corso delle cose, ma sentiva che per poco il suo tiro non aveva frenato il treno in corsa della Storia, e allora immaginò che quel periodo ipotetico dell’irrealtà potesse nascondere, dietro dei segni di sospensione, un mondo parallelo migliore di quello che gli era toccato in sorte. Un mondo in cui il suo destino alternativo di campione si sarebbe potuto compiere.

La conclusione di quel sillogismo – anche se il concetto gli si bloccò nella glottide e non riuscì a “significar per verba” – era che «se quel palo sarebbe andato in gol», Vicini avrebbe mantenuto il posto, lui sarebbe rimasto nel giro della Nazionale, l’Italia si sarebbe qualificata per gli Europei del ’92 e forse li avrebbe persino vinti, lasciando Sacchi e il sacchismo ad aspettare nell’anticamera della storia fino a data da destinarsi.

Quel palo, insomma, gli rimandava per paradosso una migliore immagine di sé, e per un attimo fu forse tentato di aggrapparsi a quei puntini di sospensione come a un alibi, casomai qualcuno, anni dopo, gli avesse chiesto conto di una carriera inferiore alle attese: «se quel palo sarebbe andato in gol» – avrebbe sempre potuto rispondere – avrei vinto il Pallone d’oro.

Illuso d’un Ruggiero. Nel 1991 il mondo galoppava così velocemente che non l’avrebbe fermato un blindato, figuriamoci un palo. Matarrese aveva già stabilito che l’era-Vicini si era compiuta e che il nuovo commissario tecnico sarebbe stato Sacchi. Era solo questione di tempo. E non lo aveva deciso solo il presidente della Federcalcio.

In tutto il Paese c’era una diffusa domanda di rinnovamento, una smania conformista di cambiare moda, di vestirsi in un’altra maniera, di mettere in soffitta gli abiti indossati fino al giorno prima. Giocare a zona come avere il piercing sul naso, come mettere gli stivali d’estate, come cambiare la pulsantiera di plastica con quella in ottone senz’altro motivo di un tautologico “perché sì”.

Ebbene, nel 1991 il condominio Italia aveva decretato all’unanimità che bisognava cambiare la pulsantiera, e per sostituirla non aspettava altro che un piccolo guasto in quella vecchia. Non sarebbe stato certo un Rizzitelli qualunque a impedirlo.

Anche in Urss, curiosamente, stava succedendo qualcosa del genere. Il 18 agosto 1991, due mesi scarsi prima del palo di cui ci occupiamo, un gruppo di dissidenti del governo di Michail Gorbačëv, con l’aiuto di un settore del Kgb, si era messo di traverso sul cammino della Perestrojika, nel disperato tentativo di arginare con un golpe lo tsunami riformista. Ma mentre il presidente veniva tenuto prigioniero nella sua dacia in Crimea, a Mosca il fiume della democrazia aveva rotto la diga, travolgendo tutto e manifestandosi tre giorni dopo nell’immagine di Borís Nikoláevič Él’cin, appollaiato su un carro armato, con il piglio del grande condottiero che ha appena salvato la patria.

L’undici schierato da Vicini il 12 ottobre 1991 contro l’URSS

Nel giro di pochi giorni, molte repubbliche sovietiche (Estonia, Lettonia, Azerbaigian, Georgia) dichiararono la propria indipendenza e l’Urss cominciò a liquefarsi. Il 21 dicembre, undici delle dodici repubbliche superstiti avrebbero fondato la Comunità degli Stati Indipendenti, e il giorno di Natale sarebbe stata dichiarata la “dipartita” dell’Unione Sovietica. Solo il calcio, insomma, manteneva artificialmente in vita quella creatura mostruosa ed enorme.

Ma la qualificazione agli Europei non poteva riunire quel che la Storia aveva deciso di dividere. Anche i giocatori lo avevano capito. L’Europeo in Svezia sarebbe stata l’ultima recita tutti insieme, sotto l’insegna provvisoria e posticcia della Csi e senza più il mitico «CCCP» sul petto. Come poteva un palo opporsi a tutto questo?

Il passaggio di consegne avvenne quasi negli stessi giorni. Gorbačëv era il loro Vicini, Él’cin l’Arrigo della situazione. Da un lato due vecchi funzionari cresciuti nella severa disciplina delle istituzioni cui appartenevano (rispettivamente il Pcus e Coverciano), che però avevano saputo rinfrescarle dal di dentro con illuminato buon senso e un certo acume visionario. Dall’altro gli “homines novi”, gli innovatori, gli eversori della tradizione e del potere costituito, che però, una volta al comando, innovarono assai poco. Così, del resto, finiscono molte rivoluzioni. Il cui crimine più grande, notoriamente, è quello di uccidere delle speranze.

Fonte Storie di Calcio

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