Pelle biancoceleste
Gen 11, 2023

Sessant’anni anni per Massimo Piscedda, la maggior parte passati nel mondo del calcio, del quale ancora oggi fa parte. L’ex difensore, che svolge il ruolo di osservatore e di opinionista, è stato un simbolo della Lazio negli anni ’80, nel difficile e allo stesso tempo romantico periodo dei -9. Sono 118 le presenze con la maglia biancoceleste, divise tra Coppa Italia, Serie A e Serie B. Inoltre ha vestito anche i colori del Siena, della Sanremese, del Taranto, dell’Avellino e dell’Ascoli. Il rapporto speciale però è senza dubbio quello con la Lazio, squadra che gli è entrata dentro e per la quale tifa.  Ha aperto il suo album dei ricordi al Guerin Sportivo con una lunga intervista.

La Lazio ti è entrata nel cuore ma la tua famiglia ha origini sarde…

“Sì, la mia famiglia ha origini sarde. Mio padre venne a Roma quando aveva 25-26 anni perché si era stufato di lavorare in miniera, aveva capito che lì si moriva (soprattutto di silicosi) e quindi si trasferì nella Capitale dove iniziò a fare il muratore. Io sono nato a Roma nel quartiere Corviale, poi ho vissuto anche a Casetta Mattei e Casalotti”.

A guardia di Maradona

Allora come nasce il tuo amore per la Lazio?

“Essendo sardi il nostro idolo in famiglia era ovviamente Gigi Riva. La mia seconda squadra del cuore è ancora oggi il Cagliari, anche perché ho vissuto gli anni d’oro. Poi iniziando a giocare con la Lazio ho conosciuto i colori biancocelesti e sono diventato laziale dai capelli fino alle unghie dei piedi”.

Come iniziò la tua avventura con la Lazio?

“Feci un provino a 11 anni, nel campo della Chiesa San Paolo di Viale Marconi e la Lazio mi selezionò. Ricordo che era tutto diverso da oggi. La domenica facevo il raccattapalle, andavamo allo stadio un’ora prima delle partite, all’Olimpico ancora c’era il fossato. All’epoca quando il pallone finiva lì (ce n’erano solo due, quello con cui si giocava e quello di riserva) dovevi scendere a prenderlo. Quando terminavano le partite andavamo negli spogliatoi, in quelle occasioni conobbi tutta la squadra, la Banda Maestrelli. All’epoca le maglie non si regalavano, si lavavano. I giocatori si levavano le divise, le mettevano dentro un borsone e noi le portavamo a Tor di Quinto salendo sul camioncino che ci aspettava fuori dallo stadio. Negli anni queste abitudini si sono perse, con l’arrivo degli sponsor è cambiato tutto. Ricordo – anche nel periodo in cui giocavo – che non ci si poteva scaldare sul terreno dell’Olimpico. Ci riscaldavamo in un campetto esterno”.

Parlando della Lazio del ’74, non si può non nominare Pino Wilson, purtroppo scomparso anche lui. Cosa è stato per te il Capitano?

“Pino per me è stato veramente un idolo, un punto di riferimento come calciatore. Io avevo delle caratteristiche simili alle sue: nel mio piccolo avevo un buon tempismo e un grande carattere, quindi mi immedesimavo un po’ in lui, ho cercato sempre di imitarlo sotto questi aspetti. Facevamo lo stesso ruolo, da bambino vai sempre a vedere quello che fa il calciatore che gioca nel tuo ruolo, cerchi di imparare qualcosa, di rubare con gli occhi. Io guardavo sempre quello con la maglia numero 4”.

Eugenio Fascetti e la Lazio del – 9

Non hai giocato sempre libero però?

“In campo ho fatto praticamente sempre il libero, poi a volte ho giocato terzino sinistro. Fu Fascetti a farmi giocare a sinistra nel periodo dei -9”.

Che ricordi hai del tuo debutto in Serie A?

“Fu un debutto un po’ amaro: perdemmo 4-2 a Verona. Era il Verona di Bagnoli che l’anno dopo avrebbe vinto lo scudetto, una squadra molto, molto forte. Perdemmo 4-2 con doppietta di Laudrup per noi. Fu emozionante, ma amaro”.

Che Lazio era quella lì (stagione 1983-‘84), quella di Giorgio Chinaglia presidente?

“Era una Lazio forte. Inserendola oggi in campionato sarebbe una squadra da 6°-7° posto. C’erano Giordano, Manfredonia, Batista; c’era Laudrup, giovanissimo ma fortissimo, c’era Spinozzi, Cacciatori, Podavini, Filisetti. Tutta gente ’esperta’ mischiata a qualche giovane come me, Marini, Orsi … giocatori abbastanza buoni insieme alle stelle sopra citate. Era una buona squadra, anche se ci salvammo solo all’ultima giornata. Considera che all’epoca le squadre erano 16, quindi il tasso qualitativo era molto più alto rispetto a quello odierno. Basta provare a mettere adesso 16 squadre con tre retrocessioni: la 13esima rischierebbe di andare in B”.

Ventiduenne, andasti in prestito…

“Dopo quella stagione andai in prestito a Taranto e poi tornai: fu Luigi Simoni a reinserirmi nella rosa, facendomi giocare le ultime tre partite, una anche da terzino destro… L’anno dopo poi mi confermò Fascetti e iniziò la splendida storia del gruppo dei -9, che nel 1987 si salvò e nel 1988 vinse il campionato. Furono due anni molto difficili, ma bellissimi”.

In un undici laziale nella stagione 1986-’87

Perché quella Lazio dei -9 è rimasta così radicata nei cuori dei tifosi biancocelesti?

“Perché purtroppo le sofferenze – anche quando hanno un lieto fine come in questo caso – ti marchiano. Ricordo che quell’anno la Lazio fu la quinta società per incassi, c’era una media di 50mila persone allo stadio. Cosa impensabile adesso, anche in Serie A. All’epoca in B c’era il pienone. In quella stagione ci furono due elementi trainanti. In primis i tifosi, che ci volevano bene perché eravamo ragazzi seri. I tifosi sono stati trainanti, hanno capito subito che c’era veramente il pericolo di sparire. Ci hanno accompagnato dal ritiro fino a Napoli. Fu un anno molto travagliato, ma alla fine arrivò una gioia pazzesca. Mi ricordo le file infinite sulla Roma-Napoli, la gente ha ancora degli aneddoti e dei ricordi legati a quella trasferta. Questo vuol dire che abbiamo lasciato il segno. In secundis c’era Fascetti che ci teneva uniti. Poche polemiche, andavamo in campo sapendo che la risalita sarebbe stata molto, molto dura: partivamo da -9 nell’epoca dei due punti, e in più avevamo perso la prima in casa col Messina. Partivamo da uno svantaggio molto difficile da recuperare, ma Fascetti per quel tipo di gestione era il numero uno, non c’è niente da fare”.

Quanto è stato importante Fascetti per Piscedda?

“È stato importantissimo, innanzitutto perché mi considerava affidabile. Delle volte andavo anche in panchina, capitava che giocasse Caso perché avevamo bisogno di uno che costruisse il gioco. Ma al primo problema Fascetti mi buttava dentro, contava sempre su di me. Ricordo che quelle poche volte che andai in panchina era come se giocassi. Avevo la fiducia dell’allenatore e questa cosa mi gratificava. Il mister ci difendeva dalle critiche, mettendosi tra noi e i giornalisti. Qualsiasi attacco o critica da parte della stampa, era il primo a prendersi le colpe e a difenderci: era il nostro parafulmine. Tutto questo secondo me ha generato un gruppo davvero molto coeso. Io sono convinto che nello sport, come nella vita, quello che fa la differenza sono sempre le qualità umane: su quelle costruisci tutto. Fascetti col suo essere anche un po’ introverso (anche se con noi non lo era) appariva un po’ come un ‘orso’, invece era un uomo dalla sensibilità fantastica, con cui potevi parlare di qualsiasi cosa in qualsiasi momento. Siccome conosceva il calcio, si metteva questa maschera proprio per fare da parafulmine alla squadra”.

Laziale doc

Il 5 luglio del 1987 fu tuo l’assist per quello che forse è stato il gol più importante della storia della Lazio, quello di Fabio Poli al Campobasso.

“Adesso li chiamano assist, a me piace ancora chiamarli cross. Fu un’azione molto ragionata. Dovetti crossare di esterno per anticipare l’avversario che mi stava aggredendo: Fabio l’ha capito, ha fatto il contromovimento e ha segnato quel bellissimo gol. Il merito è sicuramente tutto suo. Tra l’altro Fabio era anche il mio compagno di stanza e se l’è meritato veramente, anche perché forse l’unico screzio che Fascetti ebbe con un calciatore fu proprio con lui”.

Perché?

“Alla penultima giornata di campionato (14 giugno ’87, a meno di un mese dal gol al Campobasso) perdemmo a Pisa 3-0. In quell’occasione il mister negli spogliatoi se la prese proprio con Fabio Poli. Lui ci rimase molto male. Infatti si nota bene dal filmato che dopo il gol non andò ad abbracciare Fascetti: fece il giro largo passando dietro la panchina perché era ancora arrabbiato con l’allenatore”.

Un ricordo dell’indimenticato Giuliano Fiorini invece?

“Per me era innanzitutto un carissimo amico, ricordo il dolore nel giorno dei suoi funerali a Bologna. Giuliano aveva una capacità tutta emiliana di sdrammatizzare nei momenti più importanti, quelli in cui c’era maggior concentrazione. Questo ha sempre fatto piacere al gruppo: vedeva sempre il bicchiere mezzo pieno, con la sua divertentissima voce bolognese. Inoltre era un buon calciatore, ha fatto dei gol meravigliosi, aveva tantissima esperienza. Averlo perso è stata veramente una cosa brutta, anche se mi piace ricordare il suo sorriso travolgente. Ricordo un episodio divertente durante un ritiro. All’epoca, con Fascetti, avevamo un preparatore atletico che si chiamava Sassi – che poi avrebbe vinto tantissimo con la Juve –: era micidiale! A Gubbio ci faceva fare un percorso sali e scendi difficilissimo: Giuliano faceva più fatica di noi. A un certo punto iniziamo, e Fiorini che fa? Dopo mezzo giro si mette dentro una fratta, salta un giro e riparte dal secondo. A fine corsa, avendo faticato la metà rispetto a noi, arrivava tutto tranquillo e poco sudato, con noi stremati. Ovviamente gli reggevamo il gioco…”.

Il tuo dovere non era quello di segnare, ma ti è capitato in due occasioni.

“Sì, una in Coppa Italia al Flaminio contro il Taranto, l’altra all’Olimpico contro il Brescia in campionato: una punizione segnata a Ivano Bordon. Fu un bel gol sul quale scherzavo sempre con Ivano quando lo incontravo a Coverciano”. 

A proposito di Coverciano…

“Sono entrato al Centro Federale a Roma, poi piano piano sono diventato osservatore… ho fatto tutto: sono 22 anni che sto in Federazione. Ho fatto l’allenatore di tutte le nazionali giovanili, dagli Under 17 agli Under 20: mi manca solo l’Under 21. Oggi sono ancora osservatore, proprio per l’Under 21, faccio parte degli osservatori dedicati. Ho fatto anche l’allenatore per la B Italia, con Andrea Abodi per 8 anni. Abbiamo vinto le Universiadi in Corea del Sud nel 2015 con tutta gente iscritta all’università ma che oggi gioca tra i professionisti, ragazzi che avevo già conosciuto nelle nazionali giovanili con i quali vivemmo quest’avventura fantastica”.

Avendo vissuto quel calcio romantico, cosa provi nel vedere quello di oggi?

“Provo solo un po’ di superficialità per certe cose: mi piacerebbe vedere giocatori che veramente amano la maglia. Uno di questi è Immobile, che io ho avuto anche nelle nazionali giovanili e che conosco benissimo: so che la maglia la onora e la suda sempre, è uno di quei ragazzi vecchio stampo, di quelli che rientrano nella categoria romantica. È un ragazzo che si sarebbe trovato bene in quel calcio, rispecchia molto quello che era il calcio di prima e si è adattato a essere un campione in quello moderno. Purtroppo non credo che tanti ragazzi ai giorni nostri giochino a calcio, almeno rispetto a prima. È anche vero che prima c’erano poche cose a cui pensare, c’era solo il pallone. Oggi i ragazzi hanno più svaghi e il calcio, che è sempre stato uno sport sociale, si sta trasformando in uno sport un po’ d’elite”.

Tra le altre esperienze che hai avuto da calciatore quale ti ha dato di più?

“Tutte le altre esperienze mi hanno dato tanto, ho giocato a Siena, dove vincemmo il campionato di Serie C2, a Sanremo, dove sono stato benissimo. Poi sono andato al Sud e anche lì i tifosi mi hanno voluto bene, perché, con i miei limiti, davo sempre tutto me stesso. Questo mi è sempre stato riconosciuto. Insomma, sono stato bene dappertutto perché mi sono comportato correttamente, la stessa cosa vale per gli altri nei miei confronti”.

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