Jack il Bandito
Apr 17, 2024

E fu così che Jack il Bandito finì in gabbia. Non in una cella di Sonora, dopo aver assaltato la diligenza sbagliata; ma in un altro tipo di gabbia, costruita con l’acciaio dell’equivoco, e contrassegnata dai numeri 9 e 11… Numeri che quando il calcio non era ancora impazzito facevano sognare i ragazzini, essendo quelli di Charles e Nordahl, di Corso e Riva, di quelli che facevano i gol. Numeri che invece sono diventati un’etichetta sbagliata per il Jack il Bandito di Crema, al secolo – e per l’Album Panini – Giuseppe Doldi. Al quale della carriera di calciatore sono rimasti il nomignolo Jacky e un ricordo dolce-amaro che lui custodisce con serenità appena venata di rimpianto, con pacatezza che tiene alla larga recriminazioni che pure suonerebbero giustificate a chi ascolta il suo racconto.

Doldi nell’Atalanta

Che è il racconto – come scrive Giovanni Ratti – un po’ paradossale di un ragazzo dai buoni mezzi atletici, dalla tecnica elegante, che però segnava poco, e nonostante questo tutti – con una sola eccezione che vedremo – lo facevano giocare come centravanti, ben che andasse come seconda punta. «E invece il mio ruolo naturale era quello di ala tornante, non ero un campione ma sapevo coprire, lanciare, crossare, dribblare, anche inserirmi con efficacia da dietro, l’unica cosa che mi ingabbiava era giocare con le spalle alla porta, segnavo davvero poco. E così ogni stagione, regolarmente, ero in concorrenza con uno che magari se provava a stoppare mandava la palla in tribuna però faceva i gol che per una punta è quello che conta, così giocava lui e io finivo ai margini…». Ma riavvolgiamo il nastro. «All’oratorio – inizia – mi chiamavano Jack il bandito, chissà perchè, e da allora per tutti nel calcio sono Jacky. Giocavo nell’Atalantina, Mosconi mi notò e mi portò prima al Crema e poi all’Atalanta dove ho fatto tutta la trafila dagli Allievi alla prima squadra». Subito centravanti? «Qui sta il bello – sospira Jackyforse a ingannare tutti era il mio scatto secco nei quattro metri, ma se ero ingabbiato dalle marcature avversarie boccheggiavo come un pesce rosso in una boccia senz’acqua, e invece di cambiarmi ruolo mi criticavano, mi mettevano fuori…».

«Intendiamoci – prosegue con disarmante candore – non ero un giocatore da serie A e nemmeno da B, ma certo avrei potuto dare di più se qualcuno mi avesse cambiato ruolo anzichè aspettare la mia esplosione a livello di gol, che non arrivava mai, anno dopo anno…». Ma l’ultimo timbro sull’equivoco lo mise proprio lei, proprio con un gol… «Già – sorride Doldi – nel ’71 con l’Atalanta fummo promossi in A, fu il mio anno migliore come gioco, a un certo punto come al solito persi il posto, a favore di Leonardi, ma poi me lo ridiedero, segnai anche 5 gol più quello nello spareggio di Bologna con il Bari. Sacco crossò dalla sinistra, segnai di testa, al Dall’Ara c’erano tutti gli osservatori dei grandi club, da quel giorno nessuno più mi avrebbe potuto staccare l’etichetta di punta pura…». L’anno dopo sempre a Bergamo in A, un gol. «Con la Fiorentina, la palla rimbalzò male e la colpii in modo che ingannò il portiere…». E poi l’Inter. «Mi volle Fraizzoli, Chiarugi aveva rifiutato il trasferimento all’ultimo minuto, gli osservatori dell’Inter spingevano per Moro ma invece il presidente scelse me. Ma non ebbimai l’occasione di farmi valere, giocavo una partita ogni tre mesi, non ero giocatore da Inter ma non ho mai nemmeno avuto una possibilità».

Jack il Bandito

Ambiente difficile? «No, l’ambiente era buono, con persone eccezionali come Mazzola, Facchetti. Ma era un’Inter che aveva fretta di tornare ai livelli di quella mondiale. Il fatto è che l’Inter ha il pubblico più esigente di tutti, per reggere il trauma San Siro prima che grandi giocatori si deve essere uomini forti di carattere, e io non lo sono…». In quegli anni fu anche selezionato per le nazionali giovanili. «Ho fatto la Juniores, la Under 21, la Under 23, ma poi dovetti cedere il passo, davanti avevo gente come Bettega, Pulici e Graziani, Damiani… Però nelle giovanili azzurre trovai l’unico tecnico che capì quel era il mio ruolo: Azeglio Vicini che mi disse di partire da lontano e inserirmi. Eravamo in tournée in Inghilterra, durò un mese, giocai bene e segnai persino qualche gol…». Scusi, ma lei non ha mai puntato i piedi per giocare nel ruolo più adatto? «Ero giovane, mi fidavo di chi pensavo mi dovesse guidare, e poi io sono un tipo introverso, magari sono maturato in tempi più lenti del solito mentre per sfondare nel calcio bisogna essere precoci e un po’ sfacciati…».

Nell’Inter

Dopo l’Inter, la Puglia. «A Foggia dovevo dimostrare qualcosa ma la riscossa non ci fu, intanto ogni stagione inciampavo in almeno un malanno pesante… A Brindisi qualcosa ho combinato, poi Livorno, due anni persi, mi sono preso anche la pleurite, mi hanno mandato a Gallipoli e mi sono rotto il perone. Ma il fatto di fondo è che soffrivo la lontananza da casa, abitavo già a Cernusco sul Naviglio, la vita girovaga del calciatore non faceva per me».

Nell’Inter, sulle figurine

E allora nel ’78 il ritorno a Crema, nel Pergo in C1.«Qualche bella partita l’ho fatta, anche se siamo retrocessi… L’anno dopo siamo rimasti a galla, a metà classifica, ma a 29 anni ero considerato ‘vecchio’ e la società aveva l’esigenza di valorizzare i giovani così decisi di chiudere con il calcio a certi livelli, anche perchè si faceva avanti il problema di trovare un lavoro, ormai il mio futuro non era nel calcio…». E inizia il periodo dilettantistico. «Parallelo alla ricerca del lavoro, che non fu facile. Ho fatto il venditore, ho lavorato in un’impresa di pulizie, in una cooperativa, finalmente ho trovato posto stabile nella fabbrica di videocassette nella quale ancora lavoro. Faccio i turni, sono tranquillo, ho una bella famiglia, mia moglie Marisa, i figli Massimiliano e Alessandra». Diceva degli anni da dilettante. «Cinque stagioni nella Fontanellese in Prima categoria, finalmente mi sentivo di giocare come intendevo io, partivo da dietro e facevo 15-20 gol a stagione. Sì, era solo la prima categoria ma non è stato questo a fare la differenza, ero maturato e facevo finalmente di testa mia, l’avessi saputo fare quando ero all’Inter…».

Mauro Bellugi, Giuseppe Doldi, Sergio Magistrelli, Ewert Skoglund e Gianfranco Bedin

Quando decise di uscire dal mondo del calcio? «Dopo due stagioni in Promozione a Cassano, provai a fare l’allenatore, una stagione alla Calcense in Prima categoria, ma non era il mio mestiere, non ne avevo il carattere. E allora via». Rimpianti? «No, prendo la vita come viene, cercando di coglierne gli aspetti positivi. In fondo ho avuto problemi che è normale incontrare nel corso di una vita, se si vale li si supera. Per me la parentesi è chiusa, il calcio lo guardo solo in tv, ora ho un’altra vita». Nella quale però ogni tanto rispunta Jack il Bandito, il ragazzino di talento che un giorno fu ingabbiato in un ruolo che è il sogno di tanti ma per lui diventò una cella. Per evadere dalla quale dovette scappare dal calcio. Portando con sè il ricordo di quel gol di Bologna e quel nomignolo inventato chissà da chi, all’oratorio. Jacky, Jacky per sempre.

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